"Papini e la filosofia desacralizzata (per farla rinascere)" di Luca Caddeo

Secondo Friedrich Nietzsche si ripaga male un maestro se si rimane soltanto discepoli. Ecco perché Giovanni Papini sarebbe un degno allievo del suo rinnegato e parimenti amato maestro di hybris e scorribande. D’altronde financo il titolo del libro che ci accingiamo a presentare lascia pochi dubbi al riguardo: Il crepuscolo dei filosofi. Il saggio, pubblicato nel lontano 1906, omaggia difatti il Crepuscolo degli idoli dello stesso Viandante che a sua volta si ispirava, altrettanto polemicamente, al Crepuscolo degli dei di Richard Wagner. D’altra parte la storia delle idee è zeppa di parricidi e senza queste iniziatiche mattanze la medesima filosofia – che ha a che fare con Eros e dunque con Thanatos – non sarebbe mai stata ciò che, malgrado la sua pressoché endemica tendenza alla crisi e alla ridefinizione dei fondamenti, deve continuare a essere: vita che nel travaglio del pensiero genera altra vita.

Nella introduzione del libro, ristampato da Gog nel 2022, l’acuto filosofo Paolo Casini ricorda come Benedetto Croce avesse notato che il venticinquenne scrittore fiorentino demolendo la filosofia nella sua ambizione veritativa più propria stesse facendo filosofia. Seppur rovesciato si tratta dello stesso ragionamento hegeliano secondo cui interrogarsi sul cominciamento della filosofia significhi già incominciare a filosofare: il problema del cominciamento della filosofia s’interseca col problema del suo eventuale crepuscolo. 

 

Sicuramente – al di là dei risultati delle sue severe analisi – Papini maneggia con una certa dimestichezza gli strumenti della filosofia per desacralizzarla, ridicolizzarla, violarla, tradirla, ridurla in cenere – ma così facendo la pratica e la invera: si può assassinare la filosofia facendo filosofia? Con questa critica che è anche un riconoscimento proviamo a esaminare per sommi capi in che senso lo scrittore presenti la filosofia nel suo esito ultimativo. C’è da dire che a essere portata al tribunale della ragione papiniana sia sì la ragione per così dire astratta con tutti i rispettivi “prodotti”, ma specialmente il pensiero occidentale contemporaneo nei suoi più altisonanti nomi: Kant, Hegel, Schopenhauer, Comte, Spencer e – pugnalata e sentenza destinale – Nietzsche. Sono questi i filosofi che lo scrittore intende massacrare, scorticare, giustiziare. E c’è da dire altresì che lo stesso Papini – definito inizialmente da Evola un “apritore di breccia” – considera il suo saggio un’autobiografia intellettuale, qualcosa di estremamente soggettivo e che avrà un significato non in quanto tale, ma solo alla luce degli effetti che sarà in grado di ingenerare. 

Affiora pertanto la propensione – invero spesso contraddetta – di applicare al proprio “filosofare” i criteri esegetici riservati alle altre filosofie. Nondimeno in Papini è forte la consapevolezza che chi stronca possa essere stroncato nonché l’idea secondo cui il migliore stroncatore non possa dimenticare di stroncare se stesso. Il coraggioso e sovversivo visionario non stronca con l’affettata sicumera dell’accademico, ma con la rabbia dell’incendiario; c’è in lui tutta l’avanguardia, l’ambiente letterario fiorentino dei primi anni del ‘900, le sue strade, le sue bandiere, le riviste, l’imminente futurismo – “odore di polvere”, volontà di duello, di sputo in faccia, pugni, “rissa notturna”, “assalto alla baionetta”. Papini preferisce essere un martire che un imbecille e attacca con una sorta di dionisiaco autocompiacimento, con dolore pure, con senso di tragedia, sapendo bene che la sua opera è “ineguale”, “parziale”, imperfetta – lo fa da uomo, con vertiginosa schiettezza, con masochismo forse, non da dotto, non da intellettuale; da artista, non da filisteo. 

Ogni filosofo è un uomo

Ogni filosofia è una psicologia, ogni filosofia è un filosofo, e ogni filosofo è un uomo. La verità è una sorta di sovrastruttura che rispecchia la vita, la biografia. I filosofi – anche quando si autodefiniscono asistematici – inseguirebbero un concetto risolutivo che in un sistema monistico sappia dare conto delle diversità. Tuttavia questa tendenza sarebbe solo un’ingenua ambizione, un’esigenza spesso dettata da idiosincrasie e vicende personali; non sarebbe infatti possibile raggiungere l’unità assoluta né sarebbe possibile scoprire le leggi di un sistema così coerente da non dipendere da assiomi di per sé indimostrabili. E, lo si accennava, non sarebbe possibile neanche possedere la verità – quantomeno la verità intesa come oggetto di conoscenza contemplativa, rappresentativa. Alla stregua dell’apprezzato William James, per Papini una proposizione è vera “in quanto ci è utile per agire o per non agire”. Ciò che “dà delle aspettative che non si verificano” è falso; il falso è qualcosa di “inservibile”. Risultato: è vero solo ciò che serve. In altri termini – con un ragionamento dal sapore sofistico – l’utile è necessariamente vero, l’inutile è falso. Vero è ciò che, di là da qualsiasi interpretazione razionale, contribuisca all’elevazione dell’uomo, quasi alla sua divinizzazione; vero è il divenire che mescola le carte, la dialettica che nel momento costruisce di carte castelli: “le cose debbono divenire dei giocattoli dell’uomo – l’universo deve divenire la docile creta con la quale l’Uomo-Dio darà forma ai suoi fantasmi” cosicché la volontà umana possa trasformarsi all’istante in atto, il sogno come un fulmine in realtà. In questo “pragmatismo magico” – come lo definì Norberto Bobbio – l’arte, la religione, la scienza e la filosofia sono “vere” solo in virtù dei risultati che producono – e ciò vale per tutti gli ideali. 

Filosofia “realtà viva”

Gli idoli scossi col diapason nietzscheano sono da abbattere soltanto se non potenziano la vita. Per converso tutte le produzioni dello spirito umano sono “vere” nella misura in cui siano in grado di rafforzare la forza plastica dell’uomo – non conta tanto che il mondo “vero” sia stato issato sul mondo “reale” rendendolo falso (Nietzsche), conta piuttosto che l’ideale issato a partire dalla vita sappia alimentarsi alle sorgenti della vita e sappia renderla, direbbe Georg Simmel, più-che-vita che nello spirito momentaneamente oggettivato infinitamente alimenta la vita per sfociare ancora, col crollo degli artifici intellettuali, nel ribollente magma vitale. Nondimeno, benché il retroterra ideale sia questo, si ha talvolta il sospetto che pure Papini, intento anche nel successivo Un uomo finito a liquidare la filosofia per essere scintilla di vita e “realtà viva nella viva realtà”, abbia almeno in parte ceduto alla tentazione di assassinare la filosofia per fondarne una “definitiva” – una forma di pragmatismo che non fosse soltanto “metodica precauzionale” ma “misticismo magico” teso a modificare l’anima umana e a ingigantire lo spirito per farlo agire “senza intermediari”.

Papini contro Papini

D’altronde Papini che fa di Papini il proprio antagonista invera la sua idea di verità, la verità di un fanciullo che anela alla gloria e, senza compromessi, a una autenticità non astratta, ma continuamente aderente alle contraddizioni esistenziali. Prese in carico queste istanze, avremmo voluto riprodurre una sintesi delle demolizioni dei filosofi, una ricognizione delle implacabili, crudeli disossature, dei sacrali scorticamenti – ma infine abbiamo desistito convinti che la grandezza di questo testo corrosivo e del suo tormentato demiurgo non si manifesti tanto nei ragionamenti filosofici né nella esattezza forse a tratti discutibile delle argomentazioni quanto nello stesso spirito dissacrante che li incendia, nella vampa che li forgia. Agitatore iconoclasta animatore mestatore “notturno svegliatore” genio e re di stroncature – amiamo Giovanni Papini, questo ribelle in guerra con gli uomini, questo compagno di strada lontano dai suoi simili, anche quando lo odiamo. Lo amiamo anche quando, in seguito, rapito dal sistema ultramondano di un dio, lui stesso in qualche modo stronca – silenziando inaspettatamente tutti dall’ennesimo abisso – con religiosa ferocia se stesso: Papini contro Papini.

 

 

da: www.barbadillo.it

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