Postfazione di Giuseppe Parlato a "Tentativi di pacificazione tra fascisti e anti-fascisti. Quello che nessuno ha mai detto" di Ferdinando Bergamaschi (Ed. Thule)
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- Category: Scritture
- Creato: 25 Maggio 2021
- Scritto da Redazione Culturelite
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Il volume di Bergamaschi suggerisce diverse riflessioni al lettore e questo lo differenzia da altri approcci di tipo giornalistico intenti a demonizzare o a esaltare il fascismo e il suo fondatore. All’ottica oggi prevalente nei media e ancora di più nei social, quella cioè di un fascismo che va interpretato soltanto in negativo, che va analizzato soltanto per condannarlo, se ne contrappone un’altra, invece tesa a valorizzare tutto ciò che il fascismo ha realizzato, compresi gli errori, in genere attribuiti al comportamento degli avversari. Si tratta di due facce della medesima medaglia che spesso partono da un identico assioma: cercare di rendere attuale, come proposta politica, o il fascismo o il suo contrario.
Perché a settantasei anni dalla fine della guerra ciò ancora accada, dopo che tanti studi hanno cercato di realizzare una storicizzazione del fenomeno fascista, è un problema che esula dalle pagine di questa breve postfazione ma che sarebbe un interessante argomento di ricerca sul rapporto fra opinione pubblica, italiana e non, e politica di fronte a un fenomeno storico che dovrebbe essere ormai assimilato – nel bene e nel male – e consegnato alla storia.
Bergamaschi presenta una tesi di fondo, che corre come un filo rosso in tutto il volume: il fascismo ha una sua linea abbastanza coerente che consiste nel volere realizzare e imporre una democrazia radicale e sostanziale di tipo roussoviano, la quale si è manifestata in talune occasioni, che costituiscono i vari capitoli del volume e che viene ricondotta a unità nelle conclusioni. Questa linea di democrazia diretta, radicale e totalitaria è il frutto, come bene coglie l’Autore, delle origini novecentiste del movimento fascista e delle suggestioni culturali varie di Mussolini: da Sorel a Nietzsche, da Bergson a Pareto, da Prezzolini a Gentile. Naturalmente, avverte l’Autore, questa democrazia ha ben poco a che vedere con quella parlamentare: è rivoluzionaria, attivistica, mira a creare un legame diretto tra popolo e nazione e a ribaltare la questione della rappresentanza come fonte delle leggi per sostituirla, roussovianamente, con il capo carismatico.
Per realizzarla, Mussolini, secondo l’Autore, cerca di collegarsi con una sinistra riottosa e recalcitrante che lui, per altro, bene conosce, costituendo il proprio album di famiglia, allo scopo di sconfiggere il vero nemico del fascismo, e cioè la destra economica e capitalistica. Di qui, il “patto di pacificazione” del 1921, i Patti Lateranensi del 1929, l’azione culturale di intellettuali come Berto Ricci, i “ponti” in Repubblica sociale e infine l’attività politica e giornalistica di Stanis Ruinas: tutti episodi che riconducono ad altrettanti momenti dello scontro tra fascismo e la destra economica e capitalistica nel corso di un trentennio.
Una scelta, per certi versi, originale, in quanto si tratta di aspetti molto diversi l’uno dall’altro: di due di essi è artefice e convinto assertore lo stesso Mussolini, il patto con i socialisti e quello con la Chiesa; nei confronti di altri due (Ricci e i “ponti”) Mussolini esercita una sorta di appoggio “esterno”, con risultati abbastanza insoddisfacenti: la rivista di Ricci viene chiusa, mentre il tentativo di accordo con i socialisti fallisce anche, ma non soltanto, a causa dell’opposizione dei fascisti intransigenti. Per quanto riguarda Ruinas, la vicenda dei “fascisti rossi” si situa nel complesso e turbolento secondo dopoguerra.
È abbastanza significativo notare che i due tentativi di collegamento con i socialisti (1921 e 1944-45), così come i Patti del Laterano possono essere ascrivibili a una volontà non rivoluzionaria ma piuttosto riformista e inclusiva del capo del fascismo. Nel primo caso, tanto Mussolini voleva un accordo parlamentare, dopo le elezioni del 1921, con i vecchi compagni socialisti e con i popolari, da mettere in discussione l’unità del movimento fascista e pur di raggiungere l’obiettivo giunse al punto di minacciare la propria uscita dal fascismo. Spiegare questo episodio (che De Felice definisce come “errore” di Mussolini) con la volontà di collegarsi ai socialisti per costruire una democrazia radicale e roussoviana, può essere plausibile ma a una condizione: quella di declinare in chiave riformistica il concetto di “rivoluzione”. Mi rendo conto che siamo sul filo del paradosso; tuttavia, questa è l’unica strada per rendere comprensibile il “patto di pacificazione” con i socialisti senza ricorrere alla comoda motivazione dell’opportunismo: che ci fu ma che risulta poco convincente se utilizzato come unica spiegazione.
Mussolini, in quella occasione, rischiò grosso: sganciatosi da Giolitti dopo le elezioni del ’21 che segnarono, grazie all’uomo di Dronero e alla sua politica dei blocchi, l’ingresso in Parlamento dei fascisti, Mussolini lanciò la proposta di un governo a tre, con socialisti e popolari, determinando nelle componenti più estremiste e intransigenti del suo movimento non poche perplessità. Fallita tale prospettiva, “ripiegò” sul “patto di pacificazione” con i socialisti e con la Cgdl riformista; anche questo fu considerato un passo azzardato e controproducente dalle due principali componenti del fascismo, dallo squadrismo agrario, che vedeva nel patto la fine della linea che il fascismo stava assumendo, quella muscolare, antiproletaria, che qualche risorsa aveva rimediato per le povere casse del movimento nel 1920; ma erano contro il patto con i socialisti anche i sindacalisti, la prima sinistra del fascismo, che si stava costituendo a spese della Cgdl e che quindi vedeva nei socialisti il più pericoloso concorrente. Così come intransigenti e sinistra sindacale furono contrari, nel 1923 e nel 1924, ai tentativi del duce di inglobare i riformisti nel governo dopo le elezioni. L’aggressione ad Amendola – che stava, grazie ai suoi rapporti con Soffici, giungendo a un accordo con Mussolini – fu studiata a tavolino dagli intransigenti e da quella sinistra che voleva che il solco che si era formato negli anni precedenti restasse tale. Ricordiamo che, proprio in occasione del patto di pacificazione, i Grandi, i Marsich, i Balbo si rivolsero a D’Annunzio come al vero “duce”, nella convinzione che Mussolini fosse un moderato e che la vera rivoluzione l’avrebbe fatta soltanto il Comandante sostituendo con la Carta del Carnaro uno Statuto albertino considerato dai fascisti poco meno di un rottame. In altri termini, in quella occasione, Mussolini volle proseguire tenacemente l’idea di una conquista del potere assolutamente legalitaria e formalmente parlamentare, contro coloro che invece invocavano la rivoluzione contro lo Stato liberale.
Messo alle corde dopo la firma del patto, Mussolini cercò, riuscendovi, di recuperare i dissidenti impostando una nuova politica. Le strade erano due: la rivoluzione o l’azione parlamentare; scartata la prima, la seconda aveva, a sua volta, due varianti: poteva rivolgersi a sinistra, come Mussolini l’aveva immaginata nel maggio 1921 (il “laburismo dei ceti medi”, come l’ha definito Emilio Gentile), o a destra, come poi la impostò dopo il sostanziale fallimento del patto con i socialisti.
Allo stesso modo, vent’anni dopo, la scelta dei “ponti” al crepuscolo della Rsi non fu tentato con i rivoluzionari (i comunisti) ma con i riformisti socialisti, i quali però non ebbero la forza, e neppure la volontà, di mettersi contro i più potenti cugini.
A ben vedere, anche i Patti del Laterano costituirono un atto “legalitario”: il riconoscimento della Chiesa e del suo ruolo in Italia, che Mussolini aveva cominciato a considerare proprio nel 1921, per mettere in difficoltà il partito di Sturzo, fu osteggiato non solo dagli intransigenti di turno (con a capo il solito Farinacci) ma anche da un filosofo della portata di Giovanni Gentile che vedeva nell’accordo con la Chiesa la fine – e aveva ragione – della prospettiva totalitaria del fascismo.
In questa ottica, il punto dell’essenza della politica di Mussolini – non del fascismo, che è cosa diversa – non è tanto nel dilemma tra rivoluzione sociale e conservatorismo liberal-capitalistico, quanto tra sovversivismo e legalità. Anche la vicenda della marcia su Roma, con tutte le sue complessità, rientra, per Mussolini in questa visione, così come anche la questione del 3 gennaio 1925, allorché, per vanificare il pronunciamento degli squadristi, si risolse a procedere verso una soluzione dittatoriale che certamente cancellò le libertà fondamentali nel paese ma riuscì nel suo intento di liquidare definitivamente lo spirito e il ruolo delle squadre: la nomina di Farinacci alla segreteria del partito fu il contentino dato agli intransigenti per coprire il ben più significativo ruolo dei “fiancheggiatori”, e in particolare di Federzoni al ministero dell’interno, alla gestione, cioè, delle “leggi fascistissime”.
Si potrebbero fare tanti altri esempi relativamente a questa logica mussoliniana di tipo riformistico-legalitaria: uno fra tutti: il famoso discorso del duce del 14 novembre 1933, nel quale affermò che la crisi del sistema capitalistico non era una crisi “nel sistema” ma “del sistema”. Fu un discorso che la sinistra fascista lesse come la pietra tombale posta sulla destra capitalistica e come la vittoria definitiva del corporativismo, tanto che un sindacalista di vaglia come Francesco Grossi, qualche settimana più tardi, fece uscire un giornale che riprendeva nella testata la data di quel discorso, “XIV novembre”; per un anno quel foglio insistette sulla necessità che il fascismo virasse decisamente a sinistra.
Invece non solo Mussolini lo fece chiudere alla fine del 1934, ma quel che è più importante, con quel discorso dava via libera all’Iri e all’economia mista, salvando imprese e imprenditori colpiti dalla “grande crisi” e rimandando la realizzazione completa del corporativismo più avanti nel tempo (disse, in un altro discorso, “Abbiamo un secolo davanti a noi”).
Che vi sia stata quindi, in Mussolini e nel fascismo di sinistra, la volontà di realizzare una forte riforma sociale, determinata dalla nascita dello “Stato sociale” attraverso la fusione di popolo e nazione, inserendo cioè le masse nello Stato, non vi è a mio avviso alcun dubbio, e in questo le argomentazioni di Bergamaschi sono pertinenti. Aggiungerei che in questo risiedeva il suo “totalitarismo”, da intendersi però come linea di tendenza e di prospettiva, più nel fascismo movimento che nel fascismo regime, per seguire le indicazioni di De Felice, nel senso che a quel “totalitarismo” mancavano una consequenzialità e un rigore ideologici – invocati spesso dagli intellettuali della sinistra fascista – ed era invece fondato sul pragmatismo e sull’empirismo mussoliniani. Qui il discorso sarebbe ampio e complesso e si rischierebbe di uscire dalle suggestioni che il volume di Bergamaschi ci ha suscitato.
Piuttosto, occorre sottolineare quelle notazioni che nelle conclusioni Bergamaschi esplicita a proposito del dilemma tra coercizione e libertà nel disegno di società e di Stato in Mussolini. Non vi è dubbio alcuno che il fascismo sia stato un regime nel quale la libertà politica sia stata conculcata e negata. E poco cambia se si fanno paragoni con altri totalitarismi coevi o successivi. La domanda, alla luce di quanto detto da Bergamaschi, è piuttosto se la dittatura fosse o meno intrinseca al fascismo e allo stesso Mussolini come unico sistema di controllo del potere. Anche se tutto lascerebbe pensare a una risposta quasi ovviamente positiva, personalmente non ne sono così certo, al netto di tutte le teorie antiparlamentaristiche che prima e durante il fascismo sono state espresse.
Ma non perché, in fondo, Mussolini avesse pulsioni democratiche (ché la democrazia radicale e totalitaria, nei fatti come nelle idee, non è una democrazia, salvo che le si voglia dare il significato che le diedero nei paesi dell’Est europeo dopo la seconda guerra mondiale). In Mussolini, piuttosto, vi era al fondo una sostanziale indifferenza rispetto alle forme e alle teorie di governo. Riprendendo alcuni accenni significativi di De Felice, espressi proprio a proposito del “patto di pacificazione”, occorre forse rifarsi, nella formazione culturale del duce, a figure come Rensi e Tilgher, che teorizzarono quel “relativismo assoluto” dal quale Mussolini si fece guidare in molte occasioni: oltre a quelle che si sono viste, aggiungerei anche le leggi razziali – che giustamente l’Autore pone in evidenza come “il più grande errore del fascismo” – che Mussolini considerò, in quel momento, un utile strumento per avvicinarsi a Hitler, gestendole con quella superficialità e con quel cinismo che gli erano propri e contribuendo a determinare nel paese quel clima di indifferenza sulla sorte degli ebrei che risultò moralmente più grave, paradossalmente, rispetto a una coerente politica razziale.
Quando un libro suscita domande e discussioni su temi fondamentali, come quelli che si sono voluti qui affrontare, ciò significa che quel libro ha colto nel segno. Non soltanto, infatti, su questi argomenti la storiografia sta ancora interrogandosi, ma questi problemi hanno ancora bisogno di approfondimenti e come tutte le ricerche storiche essi si alimentano del dibattito sereno e costruttivo che persone intellettualmente oneste intendono svolgere. Anche in questo senso la ricerca di Bergamaschi è importante e può, a sua volta, contribuire a riaprire questioni che sembravano assodate e certe. Ma sappiamo che una storiografia seria non ha confini e necessita costantemente di revisioni: l’importante è che queste revisioni non siano ideologiche o finalizzate politicamente e che siano fondate, come in questo caso, sul rispetto del rigore scientifico e sulla piena e totale assenza di condizionamenti.