Prefazione di Maria Patrizia Allotta a "Dal fondo di tutte le cose" (Ed. Thule) di Marco Toti

Chi è un poeta? Un uomo infelice che nasconde

profonde sofferenze nel cuore

ma le cui labbra sono fatte in modo che il suo sospiro,

 se il grido sopra vi scorre,

 suonano come una bella musica.

 

Søren Kierkegaard

 

 

 

 

Sembrerebbe che l’oracolo di Delfi abbia incontrato la giovane Maya in uno spazio senza confini e in un tempo che non conosce limiti.  

Dialogano i due, come sinceri amanti, alla presenza di Thule che annota ogni dire su settantuno fogli madreperlati divenendo, così, preziosa testimone della singolare unione.

Lui si racconta saggiamente con voce vibrante e senza esitare si scopre; Lei ascolta con fare lieve ricoprendo, furtivamente, ogni parola con il suo trasparente velo.

E nonostante la delicatissima organza ovatti la forma dei lemmi, svetta, comunque, l’essenza del messaggio che grazie a uno squarcio diviene scrittura ancestrale.  

Così, forse, nasce questa silloge poetica dove, nonostante “tutte le cose” siano gradevolmente velate da un linguaggio misterioso, trionfa il loro “fondo” con nitida chiarezza, in una visione totalizzante di emblematica armonia.

Dunque, nelle essenziali pagine a seguire, il fenomeno si unisce al noumeno, il contingente al trascendente, mentre l’unità reale si fonde all’illusione cosmica.

Non solo parole visibili danzanti secondo un ritmo lento e avvincente bisbigliare ora da un sussulto dell’anima, ora da intrepidi trabalzi di spirito, ma, anche, pittura invisibile che diviene immagine mentale capace di volteggiare tra gli elementi naturali universali secondo una dimensione panteistica rara. 

Qui si eleva la sinestesia: i suoni si mischiano ai colori, così come gli odori rievocano i sapori in quel tutt’Uno forse lontano, ma presente, più volte invocato, spesso indifferente, eppure mai tradito.

La sacralità del sacro è tangibile tanto che l’effettivo diviene metafisico. Sóma e psyché si incontrano, noûs e logos si abbracciano, ethos e pathos vibrano insieme. 

L’arcano vince e, nonostante l’attento indagare, l’incomprensibile stravince dando spazio, comunque, non a un banale nichilismo fine a sé stesso, ma a un costruttivo filosofare che segretamente tende alla rivalutazione della ragion d’essere, alla rinascita dell’esistere, alla necessità dell’amare, all’esigenza di credere per pregare.

E, in effetti, l’inchiostro tracciato da mano sibillina sembra volere mostrare come in “questo tempo di lotte”, contraddistinto da “torme dei pellegrini danzanti” da “volti provati”, da “antiche lotte” eterne  e, soprattutto, segnato da “Crono che più non ricorda se stesso”,  “dall’effimero incanto” e dalla “beata resa”;  quando, cioè, gli “antichi universi sopiti epperò mai domi” risvegliano inesorabilmente il “male di vivere”, i “veleni ricolmi”,  e la “funesta alma” e, pungenti, insistono le “memorie sopite”, “l’odoroso aere di lutti”, “i petali del cordoglio”, “l’oscuro patire” ed incombe  “l’incompresa sorte” come  “vertigine del nulla” alla fine, inevitabilmente, nasce quella amara visione esistenziale legata a “vita, come il lento fluire di un fiume che torna su stesso, solenne, infine ambiguo, quale ascia bipenne”.

Eppure, nonostante lo spasmo e la morte, “l’abisso vacuo” e i “densi vuoti”, oltre il dolore e il trapasso, i “veli ancestrali” e le “sospirose attese”, nelle rare “pacate notti” quando la “luce è indorata” si avverte, comunque, il lieve “sciabordio dell’onda”, il “vento odoroso”, “il fruscio fra foglie” fino ad accarezzare la “fioca luce di una cometa”, presagio di un’“alba d’ambra” e, quindi, di attesa  “quiete infinita” che trionfa, finalmente, tra “cocco splendenti”, “muschi”, “garbate  lande” e “pallido sole” .

Così si quietano “le brame delle anime” e il “desio e l’ossessione” e “sale al cielo una fragile prece” nella consapevolezza che “l’amore vince i silenzi di Dio.”

Un flatus vocis plumbeo e segreto che pure abbaglia e svela narrando ora il quotidiano errare, ora l’Amore concepito come incanto, ora la Bellezza dell’universo cosmo, ora l’Assoluto concepito come grazia.

E l’oracolo di Delfi continua a raccontare lievemente, mentre Maya seguita a stendere il suo velo armonioso.

Ora, tra nebbia esistenziale e pulviscolo di stelle non si tocca un libro, qui si accarezza un’anima. 

 

 

 

 

 

 

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