Prefazione di Salvatore Vecchio alla silloge "Sicilia Matri" di Maria Nivea Zagarella (Ed. Thule)

La poesia salverà il mondo? Stando a Walt Whitman, sì! È certo, comunque, che la poesia scandaglia l’essere e restituisce all’uomo la sua umanità. A questo era pervenuto Aristotele tanti secoli fa, quando affermava che essa plasma la realtà e la filtra con il sentimento. Ed è quanto si nota a prima lettura in questa nuova silloge di Maria Nivea Zagarella, Sicilia Matri, che raccoglie testi scritti tra il 2019, il 2020 e il 2021, prima e nel pieno della cosiddetta pandemia. La lingua è la siciliana (di lingua si tratta!) dell’area Lentini-Francofonte con neologismi propri della contemporaneità e con la traduzione a piè di pagina che spesso costituisce poesia a sé.

La poetessa s’affida alla parola e il registro su cui si muove è vario e articolato. Si legga, ad es., la poesia dell’inizio: U friscalettu (Flauto di canna), dove prendono corpo una figura d’uomo e di contadino d’altri tempi, la sacralità della famiglia, l’amicizia e le riunioni serali d’una volta, quando bastava poco per stare allegri, e ancora la gioventù e la vecchiaia, il suono del flauto per ridare vitalità e gioia di essere. Sentite: «Avìa nta l’occhi u celu r’a campagna, / bonu cristianu ca zzappava, e / amava! // Nun cci ammancava a la famigghia / u beni, / ca u frazzu sò / anestu travagghiava. // Nu friscalettu avìa ri canna spurtusata, / sonu marïolu / leggiu comu l’ariu, / cumpagnu ‘i vita, nicu / e nt’a vicchiania. //Orbu nt’a seggia, mutu, allatu a porta, / strittu lu teni, filu ri li jorna… // C’addenzia ranni a sira / ccu l’amici, / ummiri nt’a l’ummira… / negghia nt’a l’occhi / ma ni l’aricchi, ciatu ri canna, / a picciuttanza virdi!»

Questo componimento è uno scorcio elegiaco di vita paesana che irrompe come un fiume in piena, ricco di assonanze e di richiami che qua e là costituiscono l’ossatura della silloge. Qui, come altrove, il tempo gioca la parte del leone e con esso il ricordo che riporta lontano, quando scandiva la giornata e la vita dell’uomo. C’è un sotteso rimpianto ma anche la consapevolezza dello scorrere eraclitèo che fa guardare avanti e accettare, seppure a malincuore, il presente con le storture e le inadempienze che mettono a disagio e ostacolano l’uomo nella quotidianità e nell’essere.

Maria Nivea Zagarella s’affida alla parola per dare alle cose e all’io un senso, spesso contorto e oggetto di errori e di ripensamenti che rende l’uomo simile alle bestie, come in Vestii, dove la parola detta male o distorta è un «veru mmastinu», mentre tutt’altra cosa è, se detta o scritta bene, capace di scaldare i cuori e dare alimento a tutto. È quanto leggiamo in Sicilia Matri:

 

Sta terra mia ni li palori havi

tantu di ardenti ardenza

ca u ciatu adduma… e

suca sangu

’n celu!

 

È l’omaggio alla parola (l’allitterazione dà risalto all’asserzione), ma è anche, e soprattutto, omaggio alla bellezza e alla sonorità della lingua siciliana, tanto amata dai poeti (e guai se non ci fossero loro!), capaci di ‘rinfrescarla’, come facevano i Toscani con la loro, e di darle vita e sostanza, cosa che non fanno i politici, incapaci di renderla materia di studio nelle scuole, tutti presi da altro e dall’invadente modernità, cambiando spesso in peggio, come in Chiazza Dante-ex, senza rispetto alcuno per l’uomo e le cose. Si spiega così il motivo per cui la poetessa ha dato titolo di Sicilia Matri a questa silloge, anche se è implicito l’amore per la sua terra, di cui preferisce trascurare l’elemento oleografico, ridotto all’essenziale, come in Sicilia:

 

Isula duci ca lu suli vasa,

divina libbirtati,

ràzzia d’azzolu,

comu nu ciuri

sparma l’ali ancora…

 

per dare risalto alla realtà e ai sentimenti che toccano da vicino e rendere solida l’umanità che è in noi. Si leggano, ad es., i componimenti dedicati a Rubble, Canuzzu spersu, oppure Londra, 24 ott. 2019, Fam Thi Tra My, Sbannuti ed altre, dove pare di essere in un mondo alla deriva, senza alcuna pietà e rispetto per i morti e i diseredati chiedenti aiuto. Più che altro, essa è attratta dalle forze della natura che rendono diversa e unica la Sicilia: la Montagna («Carcàra sempri etterna ca fumìa, / ntra mari e celu / Etna patrunìa»), a cui fanno eco il mare e il sole, che tanto attirarono i primi coloni. Sono elementi, questi, che nella raccolta sono presenti in quasi tutto il contesto, sia quando sono chiamati direttamente in causa sia in senso metaforico («Semu - strammati - na varcuzza gghina, mari ri ciati ca Carunti mina...» Natale 2020). Lo stesso vale per Paesaggiu, dove la poetessa disegna un quadro di natura che, pur rimanendo sempre tale, è ricco di sfumature e per questo amato.

Mi piace ritornare al motivo di fondo di questa silloge, al tempo e con esso al ricordo come recupero del passato, delle cose e della giovinezza che non ci sono più. Maria Nivea Zagarella ne è pienamente consapevole (si legga Rologgiu) e soltanto nel ricordo trova la serenità per richiamare alla mente e al cuore una realtà che, per dirla con Sant’Agostino, è una distensione dell’anima, proprio il contrario di quella che si sta vivendo oggi, assillati da un’urgenza che non dà tregua e, come la poetessa scrive, «ni pigghia a cauci la vita (Quannu l’antichi…). Si leggano anche Riordi nichi, C’era na vota…, tanto per ricordarne alcuni, ma questi componimenti sono un tuffo nel passato, rimasto impresso e rivissuto con la consapevolezza che ormai tutto è cambiato e il mondo non è più quello di prima.

Il tempo come presente, con le sue devianti modernità (Smartphonimania, Tatuaggi, Suppunenza, ecc.), sembra portare il mondo alla deriva, senza certezza, a volte anche senza cuore, come se fossero state infrante le norme più elementari del vivere civile. Basti tenere presenti i tanti femminicidi, frutto di questo malessere che rode alla base, o le rivendicazioni sociali degli uomini di colore e delle donne contro ogni forma di razzismo. La poetessa vive questo stato d’animo e lo esterna (Verbu ri fimmini, Senza iustizzia mai?) con parole dure anche per i nostri governanti «sciarrini vilinusi i cuvirnanti», ma non crede ad un miglioramento dell’attuale stato di cose. È qui il caso di riprendere il citato Rologgiu:

 

 I jorna ca nun tornanu

chianci lu cori scuru,

e u senzu

 s’addumanna

di lu rologgiu afflittu

appisu o muru.

 

Il tempo a misura d’uomo è cosa passata, e la modernità non solo porta inquinamento e sporcizia (Stabbilimentu, Munnizza), ma un disorientamento da cui non è facile uscire, perché si è bersagliati in senso morale e spirituale, e le malattie e i virus, portatori di morte, sono dietro la porta e tolgono respiro e libertà. È una consapevolezza che accomuna tutti e ne risentiamo pesantemente, essendo entrata di forza nella nostra vita con chiusure e restringimenti.  Di questo Zagarella se ne fa banditrice e vi dedica un gruppo di componimenti. «… // Primavera a cunzòlu / s’affaccia ntra li sbarri, / n’assenziu nn’amministra, / dama di caritati, / di luci ntussicata. //… // Natura vinci, e / patti novi nzingalìa, / nova ricota, / a Terra» (Limosina ‘i primavera). Oppure: «… // Quantu palori siminati o ventu…/ e a luntananza pisa di l’affetti…» (Virus). E ci sono interrogativi che forse non avranno risposta ed esclamazioni forti: «Quannu niscemu? / Comu ni niscemu… / poviri e nuri comu semu!».

La Natura è una deità che si fa sentire, grida, richiedendo rispetto, mentre fa notare la potenza che è in lei, ora con le eruzioni e i cavernicoli fumi dell’Etna, ora con la forza insistente dei marosi, ma non manca di farsi lodare per la luce che abbaglia e lo splendore del sole che in Sicilia ha eretto una bella dimora. Con fresche pennellate, ricche di colori e luci, Zagarella, innamorata e amante della sua terra (Sicilia matri), ce la presenta così, come un caleidoscopio sempre cangiante e vario. Dinanzi all’avvicinarsi della primavera essa scopre il suo lato debole, perché fa cambiare d’umore ed è la vita che esplode nei viventi e nelle cose: «Si runa versu la Natura, attisa! // Du’ stizzi r’acqua… / nu tappitu virdi, / bouquet ri ciuri nt’e spaccazzi ‘i pici, / a bedda-‘i-notti s’arricrìa, / pazzìa…» (Matri Natura), mentre in Staciuni: «… // A staciuni turnau, / vinci, trionfa, / abbunna… / e nchiuri l’occhiu / i vavareddi». Anche Acquazzina è un breve componimento che ha il respiro e la luce che vanno dilatandosi, un miracolo che a poco a poco si rivela e apre alla vita.

Così la poesia dà senso alla vita, in pace con la Natura e con gli uomini che spesso, per egoismo e denaro, vanno contro se stessi, rendendo tutto traballante, in procinto di sbattere e senza alcuna via di salvezza. Di questo siamo consapevoli, e lo è la poetessa che, a più riprese, insiste su questo tono, considerando la vita: «Ummra senz’omu», in Mari attruvatu, o un «trabbàcculu», una vettura sgangherata:

 

Trabbàcculu la vita

ca tastìa,

forsi ca forsi n’aggiustamu u tiru!

(Trabbàcculu)

 

Eppure la poesia di Maria Nivea Zagarella nasce da un atto di consapevolezza e di attaccamento alla vita che, pur con le negatività che sono molte, è bella, va vissuta e va fatto in modo che gli altri la vivano, perché è un dono e, come tale, amata. È una poesia che guarda al creato e a ciò che esso contempla e, guardando, la poetessa dice, chiede, prega (Cc’a grazia d’o Signuri…), perché si riacquisti una giusta misura nel rispetto di tutto e di tutti. Così, soltanto così, la poesia potrà salvare il mondo!

 

 

 

 

 

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