Pubblichiamo l'introduzione di Aldo Gerbino a "Il barone Bebbuzzo Sgàdari di Lo Monaco. Un eclettico personaggio a Palermo della prima metà del Novecento" di Tommaso Romano (Ed. Thule)

Nel salotto di Bebbuzzo

 

 

 

Il ‘salotto’ sembra congeniale all’intelletto palermitano. E non è certo un caso che il barone Pietro Sgàdari di Lo Monaco, amabilmente chiamato Bebbuzzo, viva la dimensione salottiera sottraendola ad ogni forma di vacuità. Piuttosto essa indica il luogo, dove si agita criticamente una condizione storico-sociale nella maniera in cui, meno di un secolo prima, in un altro salotto, quello del marchese Corradino D’Albergo, prendevano corpo le accese battaglie tra classicisti e romantici; ciò all’ombra delle pagine della rivista antiromantica «La Ruota» diretta da Benedetto Castiglia, sagace allievo di Domenico Scinà e profondo ammiratore del Romagnosi.

E Bebbuzzo, scomparso dal podio culturale il 9 marzo del 1957, si rivela figura necessaria in quello scontro di culture e aspirazioni che andavano maturando dai contrasti presenti nella prima metà del 1900. Egli ha esercitato, toto corde, da illuminato influencer, la dimensione percettiva dei saperi critici in movimento e contro ogni ristagno. Egli stesso – critico musicale del principale quotidiano panormita – accogliendo giovani promettenti nel perimetro della sua casa colmata da libri, da dischi in gommalacca ai moderni vinili, da registrazioni operistiche, accende con entusiasmo i marchi dell’arte secentesca in Sicilia, disquisendo di strumenti musicali e orchestrazione, di poesia, letteratura inglese e francese o di Martin Farquhar Tupper, lo scrittore e poeta inglese che firmò i Proverbial Philosophy. Venne anche concessa accoglienza al volto segnato e malinconico di un ‘esordiente’ d’eccezione alle soglie dell’inevitabile declino biologico e della sua vorticosa ascesa postuma: Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Lo scrittore di Palermo sarebbe morto di lì a poco, quasi a tracciare la fine di un’epoca, – appena quattro mesi dopo la scomparsa del vivace critico, – quel 26 luglio del 1957. Sgàdari consegna alla sua città la carne pulsante della curiosità intellettuale; un desiderio di conoscere trapuntato di quelle plurime sensibilità riscontrabili, non a caso, in Lucio Piccolo o in Ubaldo Mirabelli proprio grazie alla loro spontanea miscelazione di prodotti creativi che vanno dalla musica alla poesia, dalla pittura alla maiolica alla scienza.

Ed un preciso ruolo assume la fascinazione che Bebbuzzo ebbe nei confronti del maudit François Villon (Il testamento di François Villon) per quella sua inestricabile esaltazione simbiotica tra parola e musica, avvalorata anche dall’indicazione poliritmica di Ezra Pound (Le Testament de Villon) composta e resa matura agli inizi degli anni Venti. Fascinazioni avvalorate da questo pertinente, quanto necessario, testo di Tommaso Romano su Bebbuzzo e con accattivanti pagine sulla cultura palermitana del primo Novecento, non prive d’una variegata iconografia; e, in più, con l’attiva pigmentazione del puntuale saggio, a firma di Vincenzo Prestigiacomo.

Il naso di Bebbuzzo era, come sappiamo, ben pronunciato e quindi particolarmente aduso a cercare le più disparate tracce delle arti: ritmo e parola non potevano, in alcun modo, sfuggirgli.

 

 

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