“Sepulveda e l’ombra della memoria” di Maria Nivea Zagarella

 

Tre anni fa moriva di covid-19 contratto in Portogallo lo scrittore cileno Luis Sepulveda (1949/2020), intellettuale militante in America latina, attivista ambientalista in collaborazione con Greenpeace, e autore fra i più impegnati del mondo contemporaneo. Un suo efficace “autoritratto” è consegnato a una intervista del 26 giugno 2018, rilasciata a Bologna da Sepulveda e dalla moglie, la poetessa Carmen Yanez, alla giornalista Simonetta Fiori, ma ancor più, tramite la mediazione dell’invenzione letteraria, a uno dei suoi ultimi lavori: il romanzo La fine della storia (2016). L’intervista del 2018 e il romanzo del 2016 si illuminano a vicenda per i molti elementi autobiografici presenti nel libro, a cominciare dalla doppia dedica: A Carmen Yanez <<Sonia>>, la prigioniera 824, A tutte le donne e gli uomini che sono passati dall’inferno di Villa Grimaldi, il regno del cosacco. Elementi perfettamente sovrapponibili ad alcuni dati dell’articolo giornalistico.

La lunga complicità,  ad esempio, d’amore delle anime di Luis e Carmen non traspare nell’intervista solo dalle loro parole, ma anche dai loro atteggiamenti: mentre raccontano -annotava Simonetta Fiori- <<la mas bella historia de amor>> si cercano con gli occhi, ridono, si emozionano in silenzio; lei dice: per me è come se non ci fossimo mai separati; lui la definisce:…dura come l’acciaio. Forte e tenera insieme. Tale anche la profondità del legame che unisce nel romanzo Juan Belmonte alla moglie Veronica, tale pure la Veronica muta del romanzo, che cerca la mano di Juan, gli poggia la testa sulla spalla, incurva le labbra a un lieve sorriso, ma sa all’occorrenza maneggiare, senza paura, una pistola. L’articolo di Simonetta Fiori ripercorre tratti fondamentali della vita della coppia. L’innamoramento giovanile: lei quindicenne, lui diciottenne con poncho, berretto e faccia di poeta tormentato, ma anche romantico, perché rubava i fiori nei giardini per portarli a scuola a Carmen, e le scriveva poesie d’amore augurandole un futuro da poetessa. La successiva comune militanza politica nel partito socialista cileno, il matrimonio nel 1971 e il loro figlio Carlos, la prima loro separazione per contrasti politici: lei, più estremista, giudicava borghese il governo di Allende, lui invece, allineato con il presidente e membro della sua guardia personale, lo viveva come “esperienza rivoluzionaria” (mi dispiaceva -afferma- che la mia compagna criticasse ciò che stavo costruendo. Le discussioni diventavano sempre più crudeli…). La seconda più lunga separazione dovuta al golpe e alla dittatura di Pinochet: entrambi arrestati, torturati, senza sapere più nulla l’uno dell’altra fino all’esilio in Europa, lui stabilitosi ad Amburgo con la nuova compagna Margarita e i nuovi tre figli, lei in Svezia con il figlio Carlos e il nuovo compagno cileno. Carmen fortunosamente viva, perché i torturatori di Villa Grimaldi, credendola morta, l’avevano gettata via, proprio come accade a Veronica nel romanzo. La ripresa infine dei loro contatti fra telefonate e invio dei romanzi di Luis a Carmen che ne era la prima lettrice, finché in un incontro di scrittori a Goteborg nel 1989 capiscono che c’era in loro un vuoto da colmare. Seguiranno il divorzio da Margarita e il risposarsi di Luis e Carmen. Il nostro legame indissolubile -conclude lei- è stata la storia comune, il nostro passato condiviso. Una storia di dolore e di amore. Abbiamo perduto entrambi un Paese mai completamente ritrovato se non nella memoria dell’infanzia e della giovinezza, e lo scrittore conferma: Sì, ci hanno unito anche le ferite. Ma ne abbiamo sempre parlato con un forte senso del pudore, anche tra noi.

Ed è su questo “passato condiviso” e “ferite” comuni e dolorosa, pudica, riservatezza che cresce e si sviluppa la vicenda de La fine della storia dove risulta “coprotagonista”, accanto all’attivismo lucido e pragmatico dell’esperto cecchino Juan Belmonte, ex guerrigliero in Bolivia (come Sepulveda), ex membro della scorta di Allende (come Sepulveda), ex guerrigliero in Nicaragua (come Sepulveda), il lungo silenzio di trent’anni di Veronica, muta dai giorni delle torture a Villa Grimaldi (tremava di dolore… e taceva), “silenzio” tutto racchiuso nel suo sguardo che cercava qualcosa in mare all’orizzonte, qualcosa di molto suo che aveva perso in quel posto maledetto… una ricerca di se stessa, un seguire le proprie tracce per ritrovare la donna di vent’anni… Nel romanzo Veronica sta sempre sullo sfondo, presente più nei pensieri solleciti e nei ricordi tristi di Juan, che nelle azioni concrete che la coinvolgono, tranne nei due momenti dello sparo a Salamendi, e del suo grido, con la voce ritrovata, a Juan di non uccidere il cosacco torturatore Krasnov. Rispetto al Sepulveda delle note favole ambientaliste e umanistiche (le storie della gabbianella Fortunata, del gatto Mix e del topo Mex, della lumaca Ribelle, del cane Aufman, della balena bianca) dalla scrittura che si caratterizza ora per la sobria grazia fiabesca, ora per certi timbri di oralità arcaica da racconto “del principio del mondo e delle cose”, tuttavia mai disgiunti da un sottile pedagogismo morale e sociale coerentemente con la sua idea della favola come <<miniera per condividere qualcosa con lettori giovanissimi che presto diventeranno adulti e cittadini responsabili>>, il Sepulveda de La fine della storia esprime invece senza filtri la durezza e la rabbia del militante deluso e disilluso. Sentimenti riflessi nella violenza e spesso volgarità del linguaggio usato nel romanzo (merda fogna feccia piscio gorilla scagnozzo palle fottere ficcare cretini dementi, …in culo al mondo… vada al sodo, cazzo… si ficchi il suo sarcasmo nel culo… figli di puttana…) e in uno stile nudamente referenziale, che sulla bocca del laconico Belmonte si condensa in frasi per lo più secche e brevi, e negli altri passi del libro si risolve in descrizioni crudamente oggettivanti di armi, assassinii, torture, flash di guerriglia, snodi politici, o in dialoghi quasi mai distesi, più scontri che confronto/incontro, e quasi sempre saturi di amarezza. Anche l’ironia è gelida, pregiudizialmente tramata di aggressività e sorda ostilità (I suoi due discepoli… Le parabole non sono il suo forte… L’uomo di Slava [dei servizi segreti] rimase lì seduto sul cesso, strangolato con una cravatta italiana di trenta dollari avvolto in una nuvola del miglior profumo di Carolina Herrera [spruzzatogli prima negli occhi]). E la tenerezza, quando affiora, e di rado, si accompagna solo alla persona di Veronica, al suo ricordo o vicinanza fisica, imbevendo di sé per un attimo il paesaggio che di norma con la sua gigantesca possanza (il Corcovado innevato, l’immenso lago Nahuel Huapi, gli scoppi d’ira del vulcano Puyehue, l’enorme mole grigia della Cordigliera delle Ande) pesa e sgomenta l’animo così come il sole spietato di febbraio che picchia su Santiago facendo inalare aria infuocata. Si accenderanno nel romanzo solo due momenti di “luce”: uno nelle righe conclusive come vedremo, l’altro durante una sosta di Belmonte a plaza Nunoa, dove nella notte tiepida dell’estate di Santiago vede radunarsi giovani allegri, spensierati (nostalgia/speranza di felicità e sana normalità?) ed è contento di vederli così, seguiti solo da qualche cane vagabondo e non dalle ombre del passato. “Ombre” che negli anni della giovinezza di Juan avevano avuto i nomi degli hippie, di Sartre, del terzomondista Fanon, di un grande sogno di giustizia e di libertà, dal quale il protagonista stenta ancora troppo dolorosamente a risvegliarsi, l’ombra appunto [della memoria] che lo perseguita con la tenacia di una maledizione nel bene (come non-rassegnazione, appartata resilienza) e nel male (quel peso di sconfitte reali e ideali di cui Veronica è l’emblema muto da 30 anni).

Il personaggio di Belmonte non è nuovo in Sepulveda. Era già presente nel romanzo Un nome da torero (1994) cui si fa allusione (in un ponte ideale) nelle pagine iniziali de La fine della storia. In un testo anch’esso autobiografico, pubblicato su “Lettura” del 13 novembre 2016, Sepulveda scrive di Belmonte che vent’anni prima gli aveva voluto dare la sua età (40 anni) e che gli somigliava molto perché solitario rude romantico (sic!). Tutti e due -precisa lo scrittore- eravamo in esilio, tutti e due vivevamo ad Amburgo e anche se io non avevo mai fatto il buttafuori in un bordello, tutti e due avevamo lo stesso passato, eravamo stati negli stessi posti… Juan e io eravamo fratelli di sconfitte, e aggiunge che anni dopo (2013), servendogli per La fine della storia un personaggio <<con un passato simile al mio (sic!)>>, era andato di nuovo a cercarlo. La trama -sottolinea- esigeva Belmonte. E informa anche di avere cercato a lungo la casa dove farlo vivere da sessantenne, trovandola un giorno proprio mentre lui, Luis, si trovava a Puerto Carmen, un angolo sperduto dell’isola di Chiloè in Patagonia, una casa realmente vista, isolata, di legno con un filo di fumo bianco, il posto più adatto per Belmonte perché lontano da tutto, un posto da guerrigliero in pensione. Da Puerto Carmen prenderà avvio la nuova “tappa” dell’avventura esistenziale del “personaggio/Belmonte” appropriatosi -insiste lo scrittore- ancora una volta del mio passato, della mia memoria: Insieme abbiamo scoperto che noi che abbiamo vissuto intensamente (sic!) la seconda metà del ‘900 non possiamo sfuggire all’ombra di quel che eravamo. Belmonteil suo amore, la sua rabbia sono la memoria della Storia non scritta, una memoria scomoda perché è una memoria degna… una memoria indistruttibile. C’era dunque, quanto a Sepulveda, ancora un grumo non completamente sciolto di cose, di fatti, da “dire” o meglio da “ri-dire” a se stesso e agli altri (gli innumerevoli noi, colpevoli, “distratti”?), l’urgere di una “coazione a ripetere”, a rivivere il “vissuto”, il “sognato”, il “perduto” (l’ombra appunto della memoria!) nonostante i racconti già scritti e diffusi di Incontro d’amore in un paese in guerra (1997) e L’ombra di quel che eravamo (2009). L’anamnesi de La fine della storia attraversa pertanto velocemente tutto il ‘900, dalla rivoluzione bolscevica alla seconda guerra mondiale, da Hitler e Stalin ad Allende e Pinochet, dal crollo dell’URSS alla Russia e al Cile di oggi, su uno sfondo di massacri e opposti imperialismi tra fine delle ideologie, trionfo globale della plutocrazia e scempio consumistico (il viale ad esempio dell’Alameda divenuto un mercatino sterminato… con una marea di gente divisa fra chi vendeva e chi comprava senza che avesse alcuna importanza cosa e perché), il tutto osservato dall’occhio di Belmonte/Sepulveda rimasto nell’intimo fra quelli, come i suoi ex compagni di lotta Ciro, Marcos, Braulio, fedeli al Che fino al midollo.

La struttura del romanzo, con titolazione originale dei capitoli che fa riferimento alle diverse latitudini Nord e Sud in cui si svolgono i fatti, è a blocchi giustapposti, senza successione cronologica e causale lineari tranne negli ultimi capitoli (10,11,12 e epilogo). La voce narrante è ora in terza persona (focalizzazione zero), ora in prima persona, quando agisce Belmonte, a marcarne la soggettività del percorso e a stimolare l’identificazione del lettore, tranne nell’epilogo, tutto in terza persona per siglare la conclusione/senso delle quattro storie (Belmonte, Veronica, Espinoza, Salamendi). L’incrociarsi di presente e passato da un capitolo all’altro o all’interno di uno stesso capitolo, e il variare continuo dei luoghi, teatro dei vari episodi, danno innanzitutto ragione degli antefatti che motivano la “ricerca” cui Belmonte è costretto dai servizi segreti russi in complicità col magnate svizzero Kramer, strano benefattore/ricattatore di Juan. Belmonte deve rintracciare due ex compagni comunisti, Espinoza e Salamendi, conosciuti nel 1977 all’Accademia sovietica Malinovskij dove erano stati addestrati da Slava, un ufficiale del KGB, lui fra gli snipers (tiratori scelti), Espinoza e Salamendi per diventare ufficiali di intelligence dell’esercito rivoluzionario. I due però tornati in Cile il 12/2/2010 sotto falsa identità argentina con tre compagni russi si sono resi irreperibili allo stesso Slava. Gli antefatti vertono sull’odio antibolscevico dei cosacchi, fedeli allo zar, sulla loro alleanza con i nazisti nella II guerra mondiale e sulla seguente fuga, dopo la sconfitta, in America latina di tanti nazisti e dei superstiti della famiglia del futuro poi torturatore cosacco Krasnov divenuto ufficiale di Pinochet, sul progetto di alcuni nostalgici cosacchi di liberarlo dal carcere dove al crollo della dittatura è stato rinchiuso per i suoi crimini contro l’umanità, un Krasnov innalzato al grado di ultimo atamano di una velleitaria indipendente “nazione cosacca” inaccettabile dai russi. I “salti” temporali e spaziali sono anche finalizzati a fare conoscere e a dipanare eventi collaterali all’inchiesta di Belmonte, eventi che introducono inaspettati colpi di scena: il voltafaccia di Espinoza e Salamendi che da iniziali, prezzolati, collaboratori del commando dei tre cosacchi aspiranti “liberatori” di Krasnov, diventano loro uccisori per ordine dei servizi segreti russi, ma anche “ribelli” a Slava attraverso l’assassinio del “suo” uomo (quello del cesso) che avrebbe dovuto eliminare i due, ormai “scomodi”, dopo l’uccisione dei cosacchi. Ma Espinoza e Salamendi hanno scelto di “castigare” in proprio Krasnov, ammazzandolo per mano dell’abile cecchino e ex compagno d’Accademia Belmonte, donde il sequestro del servo/amico Pedro e di Veronica per forzargli la mano. Krasnov aveva torturato e ucciso pure il figlio e la moglie di Espinoza, e torturato e fatto sparire il fratello di Salamendi. Cosi -si dicevano i due determinati nella loro vendetta- avrebbero scritto la fine della storia!

Una trama come si vede intricata, che fa emergere gradualmente i ricordi privati e familiari di Juan, Espinoza, Salamendi, ricostruendo a incastri successivi i mosaici delle loro esistenze: da pragmatico idealista deluso, sempre coerente con se stesso, quella di Belmonte, ritiratosi dalla fine degli anni ’80 nella tranquillità e isolamento di Puerto Carmen, col fedele Pedro e Veronica, nell’attesa, fiduciosa e carica di speranza, che adesso che erano tutti e due in salvo sarebbe [Veronica] riuscita a rinunciare al suo silenzio responsabile e riprendere a cantare con la voce di sempre i nomi delle cose di cui sono fatti i giorni; da parabola discendente quelle di Espinoza e Salamendi. I due erano passati da militanti di sinistra anti-dittatura a ufficiali di intelligence per conto dei russi nella guerra in Afghanistan, a veterani/scarti sacrificabili dopo il crollo dell’URSS nel 1991, riducendosi a fare, per sopravvivere, i buttafuori al Chesterfield, il più grande bordello dell’era post sovietica. Lo svolgersi dei fatti delinea l’epica tragica della sinistra rivoluzionaria in Bolivia, Cile, Nicaragua; le ombre del socialismo imperialista sovietico, diffidente verso Allende (che per Sepulveda invece rappresentava il più bel sogno possibile) e invasore nel 1979 dell’Afghanistan; l’imperio globale dagli anni ‘90 di nuove spregiudicate oligarchie finanziarie, magnificamente (!) esemplate non soltanto dalla “metamorfosi” di Slava in agente della compagnia di assicurazioni internazionale Lloyd Anseatico, che controllava tutte le importazioni di frutta cereali pesce carne minerali dall’America latina nella Federazione Russa, e dunque quegli interessi e rapporti tra imprenditori cileni e russi che potevano essere danneggiati dalle “libere” iniziative di Espinoza e Salamendi (uno Slava oligarca che sfoggiava ormai il Rolex d’oro e una Mercedes fiammante). Ma anche dalla democrazia cilena post dittatura, neoliberista, guardinga contro ogni velleità rivoluzionaria e contestaria tramite torbidi organismi ufficialmente “inesistenti” quali “l’Oficina” (che teneva nel mirino pure Belmonte) e con le sue squallide sacche di poveri e di narcos. Indicative le riflessioni di Juan che si autopercepisce come “figlio della sconfitta”: Tutto era cambiato [a Santiago], ma la realtà cilena è gattopardesca e tutto cambia perché tutto resti uguale. I bassifondi adesso si misuravano in gigabyte ma continuavano a essere bassifondi. Donde la sua durezza e rabbia -di cui si diceva all’inizio- mitigata solo dalla tenerezza che permea il rapporto d’amore con Veronica, e alimenta, nascosta, la ”piccola luce” calda di speranza su cui si chiuderà il paragrafo conclusivo del romanzo. Nella tranquillità di Puerto Carmen l’innamorato Juan amava guardare il mare con Veronica stretta al suo braccio, “sentendo” lo sguardo di lei scorrere dalla riva alle onde, alle isole Cailin e Laitec, alla costa opposta della Patagonia, e fermarsi sulla cima svettante (liberante?) del Corcovado; le ripeteva Juan in quei pomeriggi davanti al mare i versi da lei amati, e carichi di presagi di Mario Benedetti (Che l’aria sia di nuovo respirabile per tutti/ e che tu ragazza resti allegra e dolente/ mettendo nei tuoi occhi l’anima/ e la tua mano nella mia mano); accompagnava Juan, a Quellon, lo sguardo di Veronica a lungo indugiante su un monumento a forma di enorme chitarra di legno con la scritta Monumento ai giovani degli anni Settanta (alias monumento agli entusiasti e perduti anni Settanta di quelli e, in controluce, di Luis e di Carmen); ne vegliava Juan il sonno rotto da gemiti con le mani contratte strette al lenzuolo, accarezzandole i lunghi capelli neri, mormorandole di parlare, di smettere di proteggerlo col suo lungo silenzio (<<tanto non possono più farci del male>> le diceva), finché lei non si rilassava e sorrideva, un sorriso che emergeva dalle brume di un passato atroce. Juan che -riavutala grazie alla buona e umile donna Anita (che l’aveva raccolta nuda dalla discarica e curata e protetta)- aveva gioito nella clinica danese a ogni piccolo gesto ritrovato di Veronica (<<sa chi sei>>…<<basta nominarti e cambia espressione>>…<<la notte grida… ma quando si sveglia stringe la tua fotografia>> gli dicevano i medici). Ed è finalmente (sic!) la voce di Veronica che, penetrando fino all’ultimo angolo del suo corpo (la voce più desiderata, la voce che voleva risentire a qualunque costo…) gli griderà: <<Non ucciderlo, Juan!>>quando, minacciato dall’arma di Espinoza, Juan è sul punto di sparare dall’alto di una mansarda a Krasnov, mentre tutta Santiago è squassata da un terremoto di grado 8,8 della scala Richter. L’ira della terra -commenta la voce narrante- era l’eco della sua voce ritrovata.

Oltre ogni odio e vendetta giustizialista (<<Che soffra. Che viva mille anni rinchiuso>> mormora Veronica cercando le labbra di Juan) trionfa dunque, alla fine, salvifica l’intesa fra due anime, quella di Veronica e quella di Juan, che aspetteranno abbracciati che scompaia alla vista la Kia metallizzata con a bordo Espinoza e Salamendi. E il loro reciproco invito: <<A casa, compagna mia>>,<<Sì, a casa, compagno mio>>, che focalizza appunto la casa ormai ritrovata, suona come il “canto“ della vita rinata mentre si avviano nella città ferita incuranti dei sussulti della terra. Una fine dunque che equivale a un inizio!  

 

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