Tommaso Romano, "L'airone celeste" (Ed. All'Insegna dell'Ippogrifo)

di Dorothea Matranga

 Un Airone celeste, opera pittorica di Ilaria Caputo, artista di grande valore e sensibilità, padroneggia sulla copertina dell’ultima silloge di Tommaso Romano e rimanda al titolo dell’opera L’Airone celeste ed. All’insegna dell’Ippogrifo. Palermo 2018. La scelta, tra tutti gli uccelli, dell’airone non è certamente casuale. Di una bellezza unica per leggerezza, eleganza, rigoroso e distaccato portamento regale, qualità che lo rendono somigliante a una creatura divina, presso i Toltechi, popolo nativo americano dell’epoca precolombiana, che dominò gran parte del Messico, simboleggiava il centro spirituale del mondo. Ponte fra due mondi, incarna l’immortalità, è simbolo di rinascita, saggezza, equilibrio, determinazione, prudenza, inizio di un nuovo ciclo. L’airone celeste ha una funzione simbolica, del tutto indispensabile alla comunicazione, nasconde una mistagogia, in quanto attraverso la decifrazione allegorica è possibile risalire dagli enti materiali e terrestri fino a impadronirsi delle idee divine e dell’energia creatrice che esse promanano.

Dunque un processo di decifrazione che parte da un simbolo che fornisce l’input, che conduce alla decriptazione e allo svelamento del messaggio nascosto dalla parola poetica dell’autore. Diremo in questo nostro viaggio sull’Airone celeste che la silloge di Tommaso Romano è un’opera poetica sopraffina dal lirismo ricercato, temi che spaziano e meravigliano per le suggestive immagini, un linguaggio forbito, essenziale ma ridondante di luce, un’emanazione di pathos di rara forgiatura. Un concatenarsi di pagine pittoriche che impressionano i palpiti dell’anima e li trattengono, custoditi con cura nella trama del logos che li accoglie. Sarà l’airone celeste a guidarci in questo percorso critico che abbraccia non solo la soprannominata Silloge ma fa riferimenti anche ad altre opere del Nostro, come “Un regalo bellissimo” pubblicato l’anno scorso in occasione della commemorazione di Cristina campo, di cui il Romano è grande estimatore, per unità di intenti e di pensiero, nel cinquantenario della sua scomparsa. Cristina Campo, una persona dalla statura letteraria e personale eccezionale, nella silloge “l’Airone celeste” diventa cardine da cui procedere avanti e indietro e viceversa, per una comprensione integrale del testo poetico in questione. Aiuteranno verso questo indirizzo anche le altre due opere del Nostro, “Dilivrarmi” e “Solfeggi d’oblio”.

Quest’ultimo testo in particolare contribuisce se pur nella smilza estensione, come lo definisce lo stesso autore, a fare un quadro chiaro del tutto. Opere che complementano e implementano il prezioso valore del nostro Airone celeste, un’opera già definita da qualche valente relatore, impresentabile, per la sua inestimabile geroglifica cesellatura. Inizieremo questo percorso critico, in punta di piedi, in rigoroso silenzio, come di chi entra in casa d’altri, nella zona più intima, dove sono custoditi preziosi tesori, e lo fa in modo rispettoso, guardandosi intorno senza lasciare il benché minimo angolo inesplorato. Lo faremo con grande discrezione cercando di rimanere invisibili ma con l’occhio attento di chi sa che quel luogo è un luogo di meraviglia e di stupore dove la bellezza fa da padrona, come lo si fa quasi profanando un tempio. E già nell’anticamera del tempio, nel pronao, troviamo un’iscrizione da mettere a fuoco: “può ritrovarsi ciò che appare perduto alla marmorea ragione, al vano giuramento, soltanto con gli occhi aperti dell’anima esiliata”.

Quindi il testo volge al ritrovamento di ciò che apparentemente sembra perduto ma non lo è. La ragione nell’esplicazione del tempo ha subito, a causa probabilmente del dolore un processo di marmorizzazione. Diventata di marmo, la ragione non ritrova ciò che sembra perduto, ma l’anima anche se è esiliata, relegata e costretta in un corpo, ha ancora gli occhi aperti e vede ciò che la ragione non coglie più. È evidente già in questo primo approccio il “petrarchismo” del nostro autore, un dualismo che sia l’uomo singolo che l’uomo universale vivono, dovendo quotidianamente dividersi con animo travagliato tra anima e corpo, in un dissidio interiore che oscilla tra corporalità, sensazioni puramente e pienamente appartenenti alla conoscenza sensibile con tutte le favorevoli e sfavorevoli accezioni e il trascendentale, divino, cui l’anima appartiene.

E già la prima lirica di non esigua mole, monumentale e incisiva nello stesso tempo colpisce per il titolo “nel limitare del tempo”, un tempo terreno, diremo fino a questo momento, almeno così è percepito, che sta per scadere, impietoso inesorabile, spietato tempo che non aspetta, srotolandosi solo in un divenire a senso unico e non tiene conto delle esigenze umane, non concede proroghe a coloro che hanno questioni in sospeso da risolvere. Notiamo una contrapposizione tra il tempo che apparentemente sta per scadere, e inesorabilmente scorre, e il poeta che si ferma invece ad aspettare “una persona che porti briciole di felicità serena” e “tempi migliori” “aspettiamo la notte per un sogno d’incontro” aspettando l’assenza. E qui ancora la speranza rimane ad attendere il miracolo, che l’assenza diventi sostanza. E nell’attesa si trascina in piena lentezza il “monologo stanco” dell’autore che in muto dialogo con sé stesso ancora spera di rispondere a una chiamata che non arriva. Se pur nel suo doloroso protrarsi, l’attesa è uno spiraglio di speranza che nel non senso, nella precarietà del sogno che può come non può realizzarsi, dà pur senso alla vita e riempie il vuoto del tempo.

Nel procedere oltre questo tormento che ripercorre, ritorna nelle altre liriche incontriamo il tempo di Eraclito fuggevole, impalpabile, non agguantabile, esiguo, inneggia al risveglio, al sovvertimento delle cose, per cogliere l’essenziale senza baroccheggianti orpelli, per denudare il senso intrinseco delle cose andando oltre le apparenze. Un Eraclito che sprona a svegliarsi dal torpore del sogno, per guadagnare una realtà vera. E in questa ricerca della verità la notte insonne è amica-nemica del poeta. Nella sua duplice veste la notte amica concede dilazioni di tempo, preziosi attimi rubati all’inesorabilità di una vita che fugge via, consola da un lato l’autore donandogli porzioni di tempo rubati alla notte insonne, dall’altro invece la notte non concede tregua, riposo, non permette all’animo indomabile del poeta di ritemprare le stanche membra. Quindi la notte non consola totalmente il poeta, ma lo tortura anche, nel trascinamento delle ore, che vedranno sorgere l’alba. La poesia invece consola e appaga l’animo del poeta.

Scrivere, mettere su carta pensieri, la poesia amica più della notte ristora, dà sfogo all’anima e apre la mente, “lascia su carta”, “vedrai un mondo nuovo e antico”. Ecco quindi che la poesia è il mezzo per sgretolare la ragione, per scioglierla dalla marmorea staticità, consente di fare chiarezza, consegna una visione totale di passato e futuro insieme, apre la mente come nessun’altra cosa concreta può fare. Restituisce l’interezza circolare del tempo, e in questo tempo circolare, il tempo stesso svanisce. Inizio, fine e nuove inizio. Il tempo scandito dal battito di un orologio, scade solo apparentemente; il ciclo naturale di nascita e morte è solo una frazione o partizione di un tempo, non tempo universale, non è scansionabile secondo l’umano modo di vedere e sentire. In questa accezione è un’entità che comprende l’Origine e la totalità senza squarci, un tempo che perde la connotazione di tempo, per diventare ciò che tutto comprende senza spifferi. Ecco quindi l’esigenza del Nostro di lasciare il Messaggio ai pochi tra molti che possano comprendere quel “mondo nuovo e antico”, la richiesta di un’apertura mentale, uno scioglimento dalla visione umana. La poesia dunque è compagna del poeta, è tutto, musica celestiale che fa svanire il tempo, esiste nella realtà ma anche nel trascendente.

Il poeta trova nella poesia appagamento e ristoro, e riferendosi ad essa lancia il monito “non bruciate le carte” che ritorna e riecheggia anche nell’Airone celeste, monito già lanciato nel libretto dall’omonimo titolo “Non bruciate le carte”. L’esortazione a chi leggerà e verrà dopo, di preservare la parola poetica con i messaggi che contiene, di salvaguardare dalla polvere e dalle incrostazioni del tempo l’amore per il Sacro, per la poesia, per l’arte, per l’attesa di Dio, la fede in Cristo, il gusto delle radici, la coltivazione delle identità culturali, il senso religioso e trascendente della vita.

La poesia è il luogo dove corpo e spirito si incontrano. È il respiro dell’anima, che rimane impressionato sulla carta. In questa sua funzione di estrapolazione del respiro dell’anima, si compie il metodo maieutico di tipo socratico, un procedimento dialogico intimo tra l’anima e il corpo, che parte dall’anima e grazie alla poesia incontra la realtà nella Verità.

Ecco il forte bisogno del Poeta che scopre tale miracolo, di non dormire la notte, di spronare alla scrittura poetica, per far sì che il trascendentale possa incontrare almeno in quei pochi barlumi, attimi di vita terrena, la realtà vera. E ancora, un tempo senza tempo ritorna quando il poeta con grande amore filiale ricorda con nostalgia e commozione la madre. La madre che piange lo sposo “senza tempo scomparso” nei barlumi di memoria, come nei frame di una pellicola che scrollano pagine di vita, avanti e indietro nel tempo, ritrovando lo sposo a volte giovane, a volte appesantito dagli anni. In questa dimensione temporale che svanisce, la madre “giganteggia nel lieve delirio” scoprendo il tempo circolare.

L’importanza della memoria per il Poeta, sia che venga affidata alle carte, oppure alle cose deve essere salvaguardata. Le cose non sono semplicemente cose, hanno un’anima, contengono sguardi, odori, amore, attenzioni, è un luogo dove “il tempo pare si sia fermato”, un luogo intimo dove l’anima trova la sua patria, dove il senso del bello assurge a dimensione quasi divina. La memoria dal greco “mimnesco” indica l’attività della mente collegata a una precisa esigenza e a un valore etico, la facoltà di mantenere in vita i contenuti del passato.

Nella tradizione classica la Musa della memoria “Mnemosyne” è la madre delle nove Muse, come a intendere che le arti hanno il compito di perpetuare la Bellezza nel tempo. Il concetto di memoria è indubbiamente legato al concetto di storia in quanto, fin quando la memoria sopravvive nel ricordo, è quasi inutile fissarlo per iscritto, poi è compito della storia salvaguardare la memoria del passato, per consegnarla al presente e affidarla al futuro. Ecco quindi la memoria nella sua nuova veste, nel tempo senza più tempo. Un continuum che sopravvive, necessario, da tramandare, affidato a coloro che della memoria scoprono la matrice divina. Proseguendo in questo senso, la custodia della memoria è affidata alle cose, e alla parola poetica. Proprio in questa direzione il Romano poeta ci illumina nella lirica “intarsio delle cose” dove parla di un luogo dove “il tempo pare si sia fermato” dove le cose non “valgono quotazioni”. Oltre alle cose che custodiscono la “divina memoria” anche la parola poetica ha il compito di eternare la memoria. Affermando che la memoria è tutto, diciamo anche che la memoria è esistenza, esistenza nel tempo, dove i muri di contenimento si sgretolano, affidandoci quindi una gigantesca memoria inesauribile nel tempo. Siamo giunti a un punto del viaggio nel nostro “airone celeste” dove l’aria si fa più rarefatta. Abbiamo accennato a una dimensione del sogno che può rimanere solo una vaga idea, oppure diventare concreto nella sua piena realizzazione. Abbiamo descritto la condizione del Poeta, che attende e spera che il sogno, nel suo vago, nebbioso insinuarsi nella mente, possa realizzarsi diventando reale, ed ecco che la visione d’un tratto appare limpida e chiara, dopo “il delirio”, dopo “la condizione di esuli, “profughi senza rifugio” “senza viaggio” “senza sbarco” “migranti dello spirito senza richiedere accoglienza”, quando anche un filo di speranza sembra negata, “non basta un amen a ritessere un filo di speranza”.

D’un tratto ecco compare l’Airone e nel poeta scaturisce uno “stupore inatteso”. Un Airone che migra libero. E qui, nella citazione di Cristina Campo troviamo lo svelamento del segreto, che appare chiaro: “nella gioia ci muoviamo in un elemento del tutto fuori del tempo e del reale. Incandescenti attraversiamo i muri”. In questo nostro procedere al diradamento e allo svelamento del significato nascosto dalla parola poetica ci fa da guida il “libero airone”.

Notiamo che non tutte le liriche che precedono quella del “libero airone” riportano una data, alcune sono datate, altre no. Questa scelta dell’autore di datarne alcune, e lasciarne altre senza data, serve a imprimere volutamente un tipico carattere alle liriche. Quelle datate sono più legate a momenti temporali, quelle senza alcuna datazione sono più legate allo spirito, le une più legate alla natura terrena, le altre più legate ai sentimenti, prettamente a carattere trascendentale. Notiamo anche che le liriche che seguono la lirica “libero airone” non hanno, volutamente, titolo. Una scelta non casuale del Nostro, consapevolmente intrapresa.

Tutte le liriche del dopo “libero Airone” sono in veste metafisica, si caricano di una intensa spiritualità, di riverente sacralità, che nella bella lirica in onore di Cristina, i versi che ne compongono il nome sono illuminanti per noi. C’è nel nome di Cristina, nel “richiamo d’Origine” nell’idea che si manifesta” un richiamo al Messaggio di Cristo-Cristina, quasi che il delirio, la prova, delle liriche precedenti, la sofferenza, il dolore portino infine alla croce, a Cristina, a Dio che tutto contiene, un dio Originario, Sommo Bene. Secondo la nostra personale interpretazione nella figura di Cristina Campo, una delle voci poetiche più alte del novecento, interprete della più profonda spiritualità, che il poeta incontrò appena diciottenne, nella sua angelica bellezza spirituale di alto e rarefatto livello di nobiltà d’animo, c’è un’affinità con la figura di Beatrice nella Commedia di Dante, che accompagna il poeta in Paradiso. E qui, a questo punto del nostro percorso critico, si fa arduo l’esprimere, per l’elevazione dei concetti, che assurgono a dimensione meramente spirituale, nell’esplicazione di un pensiero filosofico che comprende l’Airone, Cristina, Cristo, Dio.

Un pensiero circolare che ci permette una integrale comprensione del testo. C’è tra l’animo del poeta e l’animo di Cristina Campo “una corrispondenza di anime”, un’unità di pensiero e d’intenti. Per Cristina il valore della trascendenza è efficace contro la minaccia della despiritualizzazione del mondo che incombe sulla modernità che è disattenta alla bellezza. Per Cristina la vita è sfidare il destino, con la guida della poesia e del sacro.

Temi che ritornano in molte opere del Nostro, che ci fanno notare quale grande dimensione abbia la figura spirituale di Cristina Campo nel Romano. Nell’Airone celeste, Cristina ci guida nel nostro percorso spirituale. Interpretando la Croce di Cristo come il mezzo di elevazione trascendentale, anche Cristina con la sua bellezza spirituale ci indica la Via per fare un salto dimensionale. Come l’Airone (ponte spirituale tra cielo e terra) anche Cristina è stata Angelo sulla terra. Lei, più fatta di spirito che di carne, in questa dimensione terrena ci ha offerto “un Regalo bellissimo”, la consapevolezza che il sacro, il divino, il trascendentale è già qui sulla Terra, ma la marmorea ragione non riesce a coglierlo. Dopo che l’animo turbato del poeta ha provato l’abisso, attraverso la parola poetica, e la Via indicata da Cristina, che nella sua dimensione terrena, era celestiale, e aveva colto il miracolo già qui, finalmente, il dubbio si dipana, la strada si fa diritta. Cristina è l’Airone celeste. Già celeste sulla terra, per la sua raffinata anima, che ci svela il nostro destino, e ci consegna il ritorno all’Origine, dove tutto è Bellezza e Amore.

Questa visione è palese quando Cristina parla di un Amore fatto di contemplazione. La contemplazione è l’estasi per un Dio, che non è solo da ritrovare nell’Oltre, è già qui ma nella nostra visione terrena, costretta e ristretta, non vediamo, abbiamo gli occhi aperti ma ciechi alla vista. Ma Cristina ha visto e ha consegnato questa visione chiara nelle sue opere poetiche, e il nostro Poeta ha saputo riconoscere questo “regalo bellissimo” di Cristina nell’aprirci gli occhi a una visione aperta, integrale, una visione della Totalità del tutto. Ecco quindi la necessità che questo “regalo bellissimo” venga tramandato. Non va sciupato ciò che è divino, ma consegnato integro alle nuove generazioni future affinché non si perdano nel mare dell’indistinto, della despiritualizzazione, nell’annichilimento. “Un regalo bellissimo” quello di Cristina Campo al Poeta “assenza che può trasformarsi in sostanza”, che scopre che l’assenza di Cristina può essere sostanza nel reale, l’incontro tra spiriti nella materialità del corpo, nell’avere scoperto il Messaggio nascosto, ma che era già palese, e ciò crea stupore e meraviglia nella comprensione della Verità, nel compito di trasmettere e tramandare “il regalo bellissimo” a chi verrà dopo, farsi custode del fuoco “incendio, naturalmente spontaneo” “assedio d’anima”.

Un momento di pura contemplazione, di Bellezza suprema che stravolge e coinvolge. Questo fuoco deve essere custodito, conservato, alimentato, tramandato. Nel nostro percorso critico abbiamo solo per poco sfiorato il concetto di musica, che pur ricorre costantemente nelle liriche dell’Airone celeste, come in “in rapsodia”, in “secondo minore programma”, in “Politeama in fiaba”.

Il Poeta ama la musica intesa come armonia, come “vestigia d’anima”, ma anche come espressione del groviglio della vita. La musica che “illumina il meriggio” con i suoni a volte chiari, a volte soffusi, solenni, o fatta di silenzi improvvisi, suoni che sovrastano ogni pena, che rimbombano di silenzi, o assordanti note, sono respiro per l’anima, concedono tregua, riposo all’animo tormentato colmando i vuoti dell’esistenza, pur nella “suite iperbarica”. Una camera, necessaria all’isolamento, è la “suite iperbarica”. Dopo aver preso coscienza della Bellezza che ci attende, è quasi impossibile al Poeta continuare a vivere in questo intricato mondo, dove la Verità fa fatica a trovare la strada. Dove l’indistinto prevarica, dove la lotta alla despiritualizzazione appare difficilmente attuabile, dove il caos prevale nell’esistenza e confonde.

Allora il Poeta a volte si isola, a volte grazie alla musica ottiene uno stordimento, necessario al riposo della mente e dell’anima. L’isolamento è necessario all’anima “esiliata”, per trovare nel silenzio la dimensione intima dove attuare la ricerca dell’Assoluto. Qui la concezione petrarchesca del dissidio interiore trova posto nella pacatezza e nel ristoro del silenzio, nella ricerca dell’Assoluto dentro sé stessi. Agostiniana riflessione delle “confessioni” che il Petrarca assume come suo pensiero e stile di vita dopo l’ascesa al Monte Ventoso “e vanno gli uomini ad ammirare le vette dei monti, e i grandi flutti del mare, e si dimenticano di sé medesimi” dove la dimensione interiore deve prevalere alla ricerca di una falsa esteriorità che non porterà alcun frutto e appagamento. In linea a nostro parere con il pensiero poetico del Romano dove il bisogno della ricerca dell’Assoluto può essere soddisfatto solo nel solitario, rigoroso isolamento iperbarico “interminabile quaresima” che attende la Pasqua di resurrezione. Nel dedicarci come ultima nota critica all’opera dal titolo “Solfeggi d’oblio” che chiude a nostro modo di vedere il panorama poetico di questa preziosa Silloge, e nella più ampia accezione la triade “non bruciate le carte” “l’airone celeste” “solfeggi d’oblio” dobbiamo spiegare che il termine “solfeggiare “vuol dire, secondo la nostra interpretazione, vagare musicalmente, con la mente e con l’anima, amare, riflettere, sognare. Tutte azioni che fanno parte della quotidianità, della vita di ogni giorno. Solfeggiare è contemplare con lo sguardo. Questa è la musica della vita. E come nella musica dove si alternano suoni gravi e lievi, anche nella musica della vita, ci sono momenti belli e momenti di sofferenza, l’alternanza di momenti spirituali e temporali. E qui, a questo punto ci concentriamo sul termine “oblio”, che nell’ultima lirica dell’opera “solfeggi d’oblio” l’autore definisce “oblio di ghiaccio madreperlato. Un oblio madreperlato non è dunque un oblio che nega l’alba, ma un oblio che ci riporta alla poesia, al canto, alla memoria.

La memoria come già abbiamo detto è la Musa della poesia. Sua divinità primordiale è l’oblio, la prima presenza che più tardi darà luogo a Mnemosine. L’oblio e la vigilanza stessa della memoria. La potente custode della parte nascosta di cose e di uomini mortali. Il ricordo è possibile solo in virtù dell’oblio, trama e ordito insieme, memoria passata e presente. L’opera “solfeggi d’oblio” è dunque un’opera che rimanda alla contemplazione della sinfonia della vita pur nel tortuoso dipanarsi della quotidianità, fatta di gioie e dolori. Una conclusione della trilogia che rimanda all’Origine, alla matrice divina della memoria.

L’opera nella stesura di 99 copie “non venali” numerate e firmate dall’autore. Il testo poetico si apre con una citazione di Giambattista Vico “il più sublime lavoro della Poesia è dare senso alle parole insensate”. La limitatezza delle copie e la dicitura “non venali” rimanda ad una deduzione logica, l’opera non ha quotazione, il suo valore va oltre l’oggetto materiale, è memoria da custodire. Le liriche tornano ad avere una datazione ad eccezione delle ultime tre, riservate al commiato dell’autore che non è un vero congedo. Anche qui come nell’Airone celeste la datazione rimanda a un contenuto puramente temporale e terreno “sopravviviamo alla vita” “vagheggiando fuochi che non s’incendiano”, alla difficoltà di vivere, alla contraddizione dell’essere umano, eternamente in bilico tra realtà e desiderio di appagamento, espressa con termini al contrario come “sapienza/insipienza”, “velare/svelare”, “silenzio/stridore”. Un barlume di speranza tuttavia rimane “potrà mostrarsi l’immagine, almeno di ciò che agognammo”. L’ultima delle liriche che riportano una datazione è la lirica datata 24 novembre, introdotta dalla citazione di Gustave Flaubert sulla considerazione che difficilmente nella scrittura si riesce a dare la misura di ciò che si pensa, di ciò che si soffre, e della necessità che lo incalza.

Il mistero contenuto in questa splendida citazione, dove le parole giacciono in un pentolino di latta e producono battendo solo musica per gli orsi, anziché intenerire le stelle, allude a nostra visione al fatto che il senso delle parole viene spesso frainteso. Il significato profondo che il poeta vuole imprimere è un messaggio così forte e pieno di commozione da far intenerire le stelle, e invece riesce a malapena a giungere agli orecchi degli orsi (un pubblico attento solo agli input superficiali, che non analizza la vera essenza del messaggio dell’autore). Su questa base si intreccia l’ordito della lirica dove col sottofondo della musica di Ravel l’autore sceglie volutamente l’ultima fila e l’ultimo posto. Un rigoroso isolamento. C’è nel volere essere ultimo, il gusto di assaporare le vibrazioni della musica di Ravel, per perdersi in questo magnificenze splendore, dimenticando passioni, pensieri, che a nulla portano se non al rovinoso travaglio interiore dell’io.

Il maestoso esordio, lugubre e cupo, poi pian piano, dopo il lento cadenzato ritmo musicale, terapeutico, la sinfonia conduce a un liberatorio vorticoso turbine, una sorta di apoteosi del valzer. L’autore si lascia coinvolgere tuffandosi in questo vortice per trovare una ipnotica pace. Poi la danza nel bolero spagnolo, diventa sensuale. L’alternanza di questa sinfonia mutevole, a volte cupa, poi cadenzata e coinvolgente, con toni sempre più veloci nel ritmo del valzer, esplode in musica sensuale che stordisce ma non placa. Questo concerto è la vita del Poeta, senza pace, senza pause, con solo brevi barlumi di serenità apparente, mentre continua il doloroso travaglio e l’attesa. La visione di un oblio di ghiaccio madreperlato chiude il volumetto “Solfeggi d’oblio” che anche nella sua “smilza dimensione” come lo definisce l’autore, contiene la poetica e l’essenza intera del suo pensiero. L’oblio che riemerge come un iceberg nell’eterno bilico di “sensazioni liberanti” e “dubbi ritornanti” “nell’erranza delle afflizioni” e di un cuore che sembra arrendersi, conferisce la speranza che l’alba non sia alfine negata. L’oblio che riporta alla memoria, e alla vigilanza della stessa. Un oblio che contiene la memoria passata e presente, e ci riporta alla sua matrice divina. Un ritorno quindi alle Origini e alla Totalità senza squarci, e concludendo con le stesse parole dell’autore nell’opera “Non bruciate le carte” un ritorno a un “Universo molto più che verso

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