Tommaso Romano, "La Casa dell'Ammiraglio" (CulturelitEdizioni) - di Arturo Donati

BELLEZZA E PAROLA NELL’ERA DEI DISVALORI.

Nota di lettura di Arturo Donati su La Casa dell’Ammiraglio, il “non romanzo” perfetto di Tommaso Romano.

 

 

Staticità testimoniale delle cose

 

Con un valido espediente narrativo di originale architettura, che gioca alquanto sul rapporto sincronico-diacronico, il racconto introduce felicemente alla vicenda chiave del libro. Essa affiora dall’intreccio di considerazioni consuntive sul vissuto dell’Ammiraglio oramai a riposo con la genealogia di memorie significative della sua esistenza in atto presentate con apparente disordine.

Dalla tessitura espositiva emergono tratti personali del protagonista, della sua genealogia e aspetti significativi della complessa Bildung giovanile, strutturatasi progressivamente sulla base di forti suggestioni di tipo simbolicoiniziatico in più pagine richiamate. Queste vengono comparativamente rappresentate per giustificare la temperie psichica di ciò che accadrà nella sua casa nobiliare palermitana, di fatto autentico rifugio personale e spirituale quanto dimora-museo di cimeli e ricercatezze collezionate nell’arco temporale dell’intera vita. Vita della quale detti oggetti artistici di prevalente stile liberty, custodiscono i segreti più profondi.

Se la divisa a lungo indossata dall’Ammiraglio, rappresenta l’evidente assunzione di un habitus mentale e relazionale sempre onorato, di fatto il Nostro incarna una lacerante dicotomia tra linguaggi di concretezza e astrazione che ne hanno molto segnato il carattere. Intendendo lo scrivente far riferimento con il termine carattere all’aspetto atavico iniziatico dell’uomo attuale condannato per sempre a patire l’ambivalenza delle mozioni interiori, così come insito nell’accezione usata dal controverso filosofo Otto Weininger.

Proprio la tipicità del suo carattere giustifica l’incontenibile passione per il collezionismo di oggetti artistici raccolti e curati con dedizione quasi maniacale che ben simboleggiano la riappropriazione della concretezza del mondo. Sono le belle cose il nuovo principio di realtà che suggerisce una modalità di relazione con e tra gli stessi oggetti così forte da spingere l’Ammiraglio all’approfondimento psicometrico del rapporto uomo-cosa. Psicometria di chiara ascendenza parapsicologica cioè intesa quale esercizio della capacità sensitiva di captare e tentare di svelare da un oggetto la sua storia o quella della persona cui l’oggetto un tempo è appartenuto. D’altro canto anche un diverso tratto dell’Ammiraglio viene presentato come dominante. Quello l’astrattezza dai richiami del mondo da cui si è a lungo separato sposando l’estraniante arte della navigazione.

Estraneità che simboleggia il poetico raffronto e la generosa esposizione di sé per molti versi alla tragica ineludibilità del destino che coinvolge e impegna tutto il vissuto fuori dal porto sicuro delle cose reali. Cose che nella loro elegante staticità fungono da ancoraggio concreto dell’esistere nel divagante caos cosmico.

Cose e rarità che in termini iniziatici, in quanto figure esterne, si assimilano nel poeta a propaggini delle sue stesse membra. Così come Arturo Onofri (poeta caro all’autore, che ne accenna) in “Zolla ritorna cosmo” esprime in versi molto efficaci che per affinità con l’economia dei sottintesi poetici del libro, meritano una pur frammentaria citazione:

“...il raggio del cuore… è attento al di fuori… palpiti d’anima, intenta a viverne in sé queste esatte figure di un mondo che sembra (benché fuori di te) le tue membra.”

 

Discernimento estetico

Il libro di Tommaso Romano è portatore di un significato che non può essere totalmente desunto dalla vicenda centrale di cui più avanti tratteremo per doverosa esaustività. Non siamo di fronte a un semplice romanzo breve, piuttosto a una provocatoria coercizione riflessiva, in prima istanza di tipo estetico esistenziale, indotta con un pretesto narrativo fortemente autobiografico e ricco di metafore. La questione chiave posta in gioco è quella del rapporto tra l’essere e la forma, delle proprietà della bellezza, del collegamento della stessa con il soggetto e infine del rapporto tra parola e vita. Il collezionista possedendo gli oggetti anela inconsapevolmente ad appropriarsi di una bellezza che non ha creato restando infine condizionato dall’oggetto stesso che non può dominare, “abitare” del tutto pur essendo così tentato a coglierne l’anima nascosta per fonderla pian piano alla sua.

Un bisogno avvertito dallo spirito della finezza che genera stile in chi sa coltivarlo e che è tanto più alto quanto più la realtà personale e collettiva risulta ferita dal crescente dominio dei disvalori spirituali. A sostegno della presente istanza ermeneutica può giovare richiamare la riflessione di Dietrich von Hildebrand autore certamente familiare a Tommaso Romano. Il filosofo nel suo “Trattato di Estetica” spiega molto chiaramente le principali qualità assiologiche “inabitanti” della bellezza che poeticamente siamo chiamati a colmare proprio come antitesi concreta ai disvalori dominanti, poiché i valori più alti nella loro forma astratta erano, sono e resteranno metafisici. Le cose belle, pur nella loro incontestabile validità estetica, stazionano comunque a un gradino intermedio delle gerarchie della bellezza.

L’Ammiraglio si presta quindi a una felice rappresentazione metaforica della lacerante problematicità dei piani di imperfezione del nostro tempo, alla quale forse nessuno potrà sottrarsi per sempre. Il ripiegamento nel generalizzato carpe diem contemporaneo non è davvero consolatorio e in chi aspira totalmente alla bellezza lascia comunque una traccia di amarezza e un latente inesauribile bisogno aggiuntivo di completezza irraggiungibile.

Oggi le arti raramente presentano esempi di marcata pretesa formale totalizzante e di tensione verso l’acme perfettivo proprio di ciascuna di esse.

Al contrario tendono spesso al sincretismo ausiliario spesso incline al minimalismo. Basti pensare alla gradevole ma problematica coniugazione di poesia e musica che sovrappone due grammatiche spirituali confinanti e similari ma vincolate a etiche formali divergenti. Oppure al ridimensionamento semplificante e adattivo della scultura alle istanze “profane” dei contesti urbani massificati.

L’Ammiraglio in esilio volontario nella dimora estetico-metafisica, denominata felicemente casanima, riesce a coniugare il lento naturale declino del suo tempo vitale con il ristoro spirituale di rituali letture edificanti, incontri con interlocutori di spessore uniti dallo stesso anelito e con la cura della disposizione dei cimeli che nel loro insieme disposto costituiscono l’impalpabile esoscheletro della struttura nobile della sua anima. Per quanto la casanima sia la sua pietra angolare, al contempo egli necessita di una seconda

dimora di riferimento compensativo, sede di possibile nuovo isolamento ristoratore delle naturali esigenze inesauste delle proprie qualità interiori.

Luogo reale che consenta un temporaneo distacco anche dalla stessa collezione principale di cimeli, da quella variegata cerchia di bellezza faticosamente rapita e posta in una disciplinata condizione empirea, salvati con sacrificio e cura dalla volgarità del mero baratto commerciale di chi avrebbe potuto e forse voluto possederle senza amore. Nella casa dell’Ammiraglio impera la disposizione ordinata dell’amore costruito secondo la relazione delle cose e il suo dominio è tutto misurabile nel mutismo esoterico-iniziatico proprio di quegli oggetti, che restano in attesa di un prodigio che possa modificare l’ordine delle cose.

L’Ammiraglio nel sistemare ad arte statuine, icone, porcellane, quadri, libri antichi e manoscritti segue spontaneamente il suo ordine sempre dettato ad arte dall’intelligenza spirituale, come un novello demiurgo in chiave minore che dispone gli oggetti come se dovessero mantenersi immortali e tutto ciò con una dedizione che quasi emula la valenza cultuale egizia dei cimeli.

Assolvendo al suo compito articola il tutto ma non si misura ancora con il mistero della libertà, che ha un suo linguaggio di imprevedibile grammatica che non tarderà a irrompere nella sua vita non appena si giunga al cuore del racconto.

La seconda abitazione è un luogo di serenità naturale che si presta alla memoria e alla narrazione dei rapporti valoriali tra generazioni.

Un luogo ove la sovrastruttura culturale non impone le sue urgenze e concede spazio a una serena ordinarietà dal volto umano, fattore chiave di ogni possibile equilibrato discernimento e di efficace rigenerazione della facoltà dell’attenzione.

 

L’ultima notte di solitudine

Da giovane l’Ammiraglio era rimasto incantato dal Vittoriale intravedendo in quelle testimonianze ingigantite dal mito il rapporto limite tra il poeta e il tempo, tra gloria e vita. Un grande sepolcro di memorie irripetibili che esaltava l’idea della sconfinata possibilità umana di lasciare un segno o meglio di scrivere nel solco della storia e della bellezza per sempre il proprio nome, in risposta all’imperdonabile fugacità della vita. La relazione tra memoria, oggetti, libertà e cuore si era insediata nell’angolo più solitario della sua coscienza di futuro navigatore errante in grado di raffrontarsi costantemente con l’invariabilità macroscopica degli orizzonti. Gli sconfinati limiti della visione naturale che modificano la comprensione dell’io, avevano strutturato in lui una certa sana propensione a un composto scetticismo di risposta che lo ponesse al riparo dalle facili illusioni:

“...un uomo sostanzialmente scettico circa il destino e il senso della sua stessa esistenza ma aperto alla conoscenza modulare, naturale dell’artificio della proiezione, che è la qualità propria delle cose…”

Da questo passo fondamentale risulta facilmente comprensibile quanto il suo circondarsi di oggetti belli fosse il prodotto di una dilatazione astrattiva dello schema mentale non propenso al subitaneo stupore. Aveva così realizzato con la casanima un personale Vittoriale di contraria ispirazione, un tempio domestico quasi una piccola domus aurea di cui essere l’unico nume tutelare e il cortese disciplinatore degli accessi dei visitatori scelti. Di fatto un microcosmo sempre sensato ma incompiuto, perchè in continua espansione, dove ogni nuovo inserimento imponeva una diversa concezione dell’insieme necessitante rinnovata perfezione. Parallelamente la sua abitazione rurale aveva subìto anch’essa una doppia mutazione diventando sia centro di raccolta ausiliaria di oggetti non ospitabili nella casanima che suggestivo mausoleo di strumenti propri della vita campestre testimonianti l’umanesimo del lavoro manuale e legati alla tradizione popolare, di cui l’Ammiraglio comprendeva la complessità delle radici. Le due case una conciliazione parallela tra due forme di memoria, due diversificate trame della stessa tradizione valorizzante che convivevano sintetizzandosi ricerca di ricerca di una genealogia possibile che conciliasse le memorie delle altezze e quelle della terra. Ambizione antropologicamente ardita di coniugare la complessità estetica e l’umiltà che si fa storia scritta negli strumenti che raccontano la vita. In questa propensione al semplice quale contraltare alle suggestioni del Liberty dell’Art Nouveau e del Futurismo, forse è congetturabile in Tommaso Romano una lontana sintonia non dichiarata con il Sereni di “Una strada di Zenna” in cui si recita:

“…ma l’opaca trafila delle cose che là dietro indovino… i minimi atti, i poveri strumenti umani avvinti alla catena della necessità , la lenza tutta a vuoto nei secoli…”

In ogni scrittore maturo c’è sempre un’apertura conclusiva a una meditazione sulla totalità dell’esperienza umana e una certa dichiarazione di apprensione e disagio per l’irruzione improvvisa del destino in ogni esistenza che c’è stata data. E questa apprensione affina la sensibilità e la fantasia così tanto che l’amplificazione della sensazioni si mescola all’insolita percezione di segnali esterni altrimenti inavvertibili e il contatto con la realtà modificato può condurre sia a visioni che a forme di pampsichismo spirituale.

Così da qualche tempo pensava spesso l’Ammiraglio in solitudine

specialmente dopo il dolore per la morte dell’amatissima madre che aveva posto a dura prova le dinamiche dei suoi complessi livelli di coscienza, tanto da alterare anche le abitudini e il sonno. Così accadde che una notte sprofondato nella comoda poltrona materna trasferita nella casanima:

“Morfeo stava così lentamente e dolcemente avvolgendolo quando sentì un rumore...non molto lontano da lui intravide una luce che proveniva da altri ambienti… tentò di riaddormentarsi e di fuggire così a sensazioni indecifrabili… Continuarono a manifestarsi suoni e rumori, voci addirittura , che sembravano umane.”

 

L’irruzione della parola

E come un uomo iniziò il suo eloquio oracolare la piccola statua marmorea di riproducente Cometa, una delicata fanciulla scrivente che era stata progressivamente collocata in bella vista nella stanza più ornamentale della casanima. Dall’epicentro di quel microcosmo sino a quel momento inanimato il discorso di Cometa rivela la gratitudine personale e degli ospiti-prigionieri di quell’oasi sacra nella quale erano stati custoditi con un amore così pregnante da conferire loro capacità di parola che giunta all’acme si rivelava in quel momento. E nella breve ma intensa dissertazione dialogante affiorano due inferenze del destino che accomunano l’Ammiraglio e le sue creature adottate.

Quella rivolta al Nostro di non interpretare il fenomeno come un semplice segnale dissolutorio della razionalità portante del suo essere che l’aveva sempre accompagnato nelle considerazioni laceranti sull’effimero e l’apprensione non rassicurante dei cimeli parlanti che temono un ordinario processo di sopravvivenza all’Ammiraglio stesso adesso riconosciuto quale amorevole e insostituibile tutore. In questa impostazione, appena accennata nel libro, risiede il segreto del metaforico riconoscimento dell’agape divino da parte degli uomini e della sottrazione sacrificale cristiana della divinità alla quiete del proprio essere, per porsi in atto in termini di sacrificio per la sopravvivenza essenziale delle sue creature. Per molti versi il libro mira a presentare e produrre modelli di pensabilità della stabilizzazione nel contemporaneo di un’autentica coscienza cristiana dell’esperienza umana.

L’Ammiraglio in linea con le influenze del processo di secolarizzazione spirituale, invece notoriamente osteggiato nella vita reale dall’autore, appare suo malgrado come un dio minore. Disposto nella straordinaria circostanza, a negoziare con le sue creature la priorità del contenuto di relazione fondante del senso della vita, che invece teologicamente è e resta strutturato gerarchicamente. Tale aspetto spesso volutamente ignorato dalle istanze pastorali più elusive della tragicità del possibile distacco definitivo dell’uomo da Dio, contro il quale con il peccato può ritorcersi il dono del libero arbitrio privando così la bellezza del suo contenuto di verità.

Dopo il fenomeno l’Ammiraglio si trova costretto a misurarsi con le stesse istanze moderniste che le altezze della sua cultura avevano tenute lontano. Infatti non si appropria immediatamente di una ermeneutica mistica che spieghi il fenomeno psichico in termini di chiamata, ma esercita una inconscia analisi dubitativa del rapporto con il mistero che è il connotato antropologico fondamentale che può definire l’umano nella sua radicalità di creatura spirituale.

Egli quindi si cimenta in una ricerca di spiegazione confrontandosi con forti figure amicali rappresentative di modelli morali possibili. In altre parole Tommaso Romano raccontando le risposte che altri danno della giustificazione del fenomeno che ha interessato l’Ammiraglio, riesce a rappresentare efficacemente aspetti della crisi della libertà che oggi attanaglia l’uomo che seguendo un’etica relativista sposta l’attenzione. La decentra dal rapporto parallelo di due dualità fondamentali del cristianesimo, uomo-Dio e salvezzapeccato, verso i processi più arbitrari e elusivi. Come la legittimazione etica della prassi secondo i variegati dettami autoreferenziali della coscienza personale. Mutata al presente l’istanza modernista, sempre viva e minacciosa, ingenera nell’uomo comune la mistificante convinzione che Dio debba rispondere di sé all’uomo. Al contempo chi ha faticosamente costruito intorno a sé una realtà dominata dalla supremazia culturale che legittimi una pretesa di distinzione e l’assunzione di uno stile corrispondentemente altero, se assediato dalla mediocrità spirituale prevalente, rischia di essere pago delle sue altezze e quindi di mantenere a sua volta bassa la soglia di coscienza del peccato durante l’esercizio delle sue volontà. L’Ammiraglio è un soggetto che resiste pur con i suoi tentennamenti ma in fondo cerca spiegazioni che non vuol trovare. Il suo non è che un disorientamento apparente, il prodotto di una crisi interiore che è un richiamo indomito alla rigenerazione e al riappropriarsi delle vie dello stupore.

Egli sa bene che la percezione della parola umana proveniente dal mondo non umano degli oggetti non è un fatto magico, piuttosto un segno premonitore del prodigioso dischiudersi dell’animo umano all’amore universale. Amore, strettamente connesso alla bellezza, che non può essere compreso in profondità senza una reale esperienza totalizzante di smarrimento, illuminazioni e finitudine.

Paghe del loro mondo e salvate dalla rovina le statuine a turno e in più riprese con le loro voci riescono a rappresentare le modalità possibili dell’amore concreto in un mondo non reale, secondo un’alternanza armonica di visioni differenziate. L’Ammiraglio avverte di contro le gravi dissonanze con il mondo fuori dai suoi rifugi, dominato dal pensiero unico e dove non basta distinguersi per restare attaccati alla felicemente vita. Così la lezione di saggezza la raccoglie maggiormente non dai libri tanto amati o dagli amici, ma dalle statuine stesse prodigiosamente in facoltà di parola, in particolare Eleonora:

“...Resta nostro compagno in sublime attesa…in te soltanto troverai la forza per squarciare il velo... Trova la luce del mito, la gioia come sempre l’hai praticata nella vita...sappiti misurare con l’Eterno e non con le miserie e la decadenza. Ignora se possibile”

Ignorare per non lasciarsi alterare così come lo consente la sprezzatura letteraria di stampo rinascimentale. Questo il probabile senso dei pregnanti enunciati che introducono un discorso sulla salvezza individuale e sulle armonie possibili che raggiunge l’Ammiraglio, il quale in ultimo beneficerà anche del dettato veritiero della Santa vergine. Sarà l’effigie di una Madonnina a proludere la risposta più alta, più vera nella direzione che la Corredentrice indica a tutti gli uomini sin dagli albori del cristianesimo:

“...segui il travaglio della tua anima in pena...Redimiti e prega… le parole che hai udito e che udrai sono vere, sono il linguaggio di quell’Anima cosmica che ti ha scelto…”

E’ il discorso più lapidario e vero che risuonerà nella casanima e che potrà ingenerare nel lettore più attento maggior credibilità nei confronti del personaggio che è anche un modello di conflittuale apertura dell’umano a tutti i fatti della vita. Infatti alterna nella piena accettazione del vivere sia le altezze che le criticità e i punti di caduta. Così come emergerà in alcune pagine ove le memorie di certi fatti amorosi sono presentati con un velato cinismo di composta rassegnazione all’inevitabile richiamo delle tentazioni anche non edificanti che sempre fanno parte del complesso gioco della vita.

 

Conclusione

L’espediente letterario adottato da Tommaso Romano nel suo “non romanzo” implica insinuazioni prodigiose che esulano notevolmente dalla questione della verità autobiografica dell’incantamento psichico da cui potrebbe pur discendere la narrazione dell’evento, cosa che davvero poco dovrebbe interessare il critico.

Ciò che ha mosso lo scrivente nell’analisi del racconto è la volontà di rintracciare i tratti metaforici prevalenti più significativi della provocazione filosofica dell’autore il quale pone di riflesso perentoriamente due questioni chiave. Quella della praticabilità del lavoro del letterato ispirato nella realtà dei disvalori consolidati che attualmente stanno per essere posti a fondamento di una deleteria etica rovesciata. Scrivere per ispirazione implica devozione e nel senso inteso lo si può ancora a condizione che la sensibilità moderna, non del tutto sorda al divino, riporti in vita o meglio in circolazione il nesso tradizionale, se non perenne, tra spiritualità e letteratura.

Anello di congiunzione senza il quale il compito dello scrittore e la sua funzione derogando dalla parola edificante, l’unica a cui ambire e che valga qualcosa, degrada irreversibilmente verso la banalizzazione della letteratura ideologizzando così la resa alla volgarità e i processi di santificazione delle realtà inferiori.

Infine con l’interrogativo più dolente e pregnante per le anime belle che non possono restare mute, si chiede se in un mondo così tanto omologato e empio sia ancora possibile unire il pensiero all’anima e raccontare l’amore.

Riconciliando così l’essere e la vita per nutrirsi della Bellezza redentiva che sempre accompagna l’irreversibile fugacità del tempo.

“Ogni cosa che è entrata nel tempo o entrerà ancora in rapporto con questo amore, finché resterà puro e senza utilitaristici ritorni, sarà un atto redentivo vivificante.”

 

 

 

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