Viaggi nell’aldilà nella letteratura predantesca – di Giovanni Teresi - I letteratura

L’XI dell’Odissea, la cosiddetta nékya («evocazione dei morti»), costituisce il documento più autorevole sulle primitive concezioni dell’Oltretomba, e allo stesso tempo il principale modello per tutte le successive elaborazioni letterarie che hanno per tema la catàbasi, la discesa agli Inferi (del resto l’intera Odissea, strutturata come un «ritorno dell’eroe alla propria terra perduta», rappresenta un fondamentale archetipo narrativo).
In particolare vi si ispirerà Virgilio nel VI libro dell’Eneide, costruito sulla traccia del modello omerico, pur nella diversità dei valori ideologici e strutturali che lo sorreggono.
La discesa nel regno dei morti di Ulisse avviene dopo che l’eroe ha abbandonato l’isola Eèa, dove la maga Circe lo aveva tenuto prigioniero per un anno insieme ai suoi compagni trasformati in porci; spintosi con una sola nave fino ai confini dell’Oceano, egli giunge nel paese dei Cimmeri, avvolto nella nebbia, dove discende nel regno dei morti per incontrare l’indovino Tiresia e interrogarlo sul proprio destino. Oltre al vate Tiresia, Ulisse incontra nell’Ade il compagno insepolto Elpenore, la madre Anticlea, i propri compagni d’armi durante la guerra di Troia, Agamennone, Achille e Patroclo, Antiloco e Aiace, e infine i grandi dannati, Minosse, Orione, Tizio, Tantalo, Sisifo ed Eracle.
Quella compiuta da Ulisse non è però una vera e propria visita del regno dei morti: manca nel testo omerico una precisa topografia dell’Ade, che caratterizzerà invece il racconto di Virgilio; l’eroe greco si limita ad arrestarsi sulla soglia, dove le ombre dei morti gli appaiono davanti una dopo l’altra, attratte dal sangue sacrificale. Le anime presentano caratteristiche diverse: alcune appaiono come fantasmi, corpi aerei, reali ma dotati di scarsa attività vitale; inutilmente infatti Ulisse cerca di abbracciare la madre Anticlea: «E mi slanciai tre volte, il cuore mi obbligava a abbracciarla: / tre volte dalle mie mani, all’ombra simile o al sogno, / volò via» (XI, 206-207).
 Le anime possono tuttavia rinvigorirsi bevendo il sangue sacrificale, come risulta dalle parole di Tiresia: «Ma levati dalla fossa, ritira la spada affilata, / che beva il sangue e poi il vero ti dica» (XI, 95-96).
Le anime dei grandi dannati possiedono invece un grande vigore fisico, a cui è legato il loro eterno tormento: Sisifo spinge un enorme macigno; Tizio è tormentato da due avvoltoi che «annidati ai suoi fianchi, rodevano il fegato, / penetrando nei visceri» (XI, 578-579); Tantalo, circondato da acqua e frutti, soffre pene atroci nell’impossibilità di toccarli. I due brani che seguono si riferiscono all’incontro con Tiresia e alla sua profezia, che costituisce lo scopo del viaggio e della catàbasi di Ulisse, e a quello con Achille.
Ulisse cerca l’indovino maschio perché siamo nel maschilizzato mondo Omerico: qui Cassandra profetizza il vero ma non viene creduta, la Sibilla Cumana vuole solo morire e la Pizia è una povera giovinetta delirante e posseduta dal dio.
E’ il mondo dove Calcante domina, e Ulisse non cerca la profezia di Manto ma quella del padre di lei Tiresia.
Per ottenere l’aiuto dei morti non bastano le preghiere, ma occorre il sacrificio cruento: bisogna restituire a loro, temporaneamente, parte della vita. Ecco dunque il sacrificio di due vittime, un montone e una pecora. Subito le anime si precipitano, ma Ulisse le scaccia con la spada, come se le ombre temessero ancora il ferro.
Finalmente si avvicina Tiresia, con in mano “l’aureo scettro” proprio della sua funzione.
L’arte di Omero fa sì che l’indovino si rivolga al vivente con un interrogativo, rovesciando in apparenza quello che deve essere il rapporto tra lui e Ulisse:
 
Uomo infelice,
Perché, del Sole abbandonati i raggi,
Le dimore inamabili de’ morti
Scendesti a visitar? Da questa fossa
Ti scosta, e torci in altra parte il brando,
Sì ch’io beva del sangue, e il ver ti narri.
(Omero, Odissea, XI, 124-129)
 
La profezia di Tiresia
 
Se intatte le lascerai, se penserai al ritorno,
in Itaca, pur soffrendo dolori, potrete arrivare:
ma se le rapisci allora t’annuncio la fine
per la nave e i compagni. Quanto a te, se ti salvi,
tardi e male tornerai, perduti tutti i compagni,
su nave altrui; troverai pene in casa,
uomini tracotanti, che le ricchezze ti mangiano,
facendo la corte alla sposa divina e offrendole doni di nozze.
Ma la loro violenza punirai, ritornato.
 E il segno ti dirò, chiarissimo: non può sfuggirti.
 Quando, incontrandoti, un altro viatore ti dica
che il ventilabro tu reggi sulla nobile spalla,
allora, in terra piantato il maneggevole remo,
offerti bei sacrifici a Poseidone sovrano
– ariete, toro e verro marito di scrofe –
torna a casa e celebra sacre ecatombi
ai numi immortali che il cielo vasto possiedono,
a tutti per ordine. Morte dal mare
ti verrà, molto dolce, a ucciderti vinto
da una serena vecchiezza. Intorno a te popoli
beati saranno. Questo con verità ti predico».
Odissea, XI, 90-137
( Letteratura dei Feaci – la profezia di Tiresia)
 
Con l’Odissea inizia il motivo della nékyia ‘razionalizzato’ ai fini di una conoscenza che riguarda l’eroe; tuttavia qui l’incontro con i morti non è ancora motivato profondamente (come sarà nell’Eneide, o nella Divina Commedia), dato che l’ombra evocata di Tiresia dirà, sì, ad Odisseo in che modo potrà far ritorno ad Itaca, ma le sue rivelazioni rimangono tutto sommato vaghe, e in particolare lo sono quelle che riguardano la morte dell’eroe: «a te la morte verrà dal mare, placida così, una morte che ti colpirà un giorno, consunto da serena vecchiezza»
E se l’incontro con Tiresia non ha le caratteristiche di un vero e proprio svelamento, è dall’incontro con altri morti che Odisseo ha motivo di imparare: dall’incontro con Achille, in primis, e da quello con Agamennone, i cui consigli di prudenza egli seguirà quando finalmente giungerà ad Itaca.
Odisseo non scende personalmente ad attraversare il mondo degli inferi, come faranno invece Enea nel VI dell’Eneide e Dante nell’Inferno, ma attende che le anime appaiano, attratte dal sangue degli animali sacrificati.
La tradizione cristiana medievale, soprattutto quella di ascendenza agostiniana, ribalterà quanto detto  abbassando, almeno sul piano metaforico, la vita terrena al ruolo di esilio – temporaneo – di valle di lacrime, in confronto alla “vera patria celeste”. Dante, che farà dell’incontro con i morti non più un episodio centrale di un poema (come è in Omero e in Virgilio), ma il tema di tutta un’intera opera enciclopedica, rivela invece anche in questo l’autonomia del suo genio. Vale infatti ancora oggi il giudizio di De Sanctis, che ammirava in Dante la capacità di trasferire la vita terrena nell’aldilà, in particolare nelle ombre magnanime dell’inferno. I morti di Dante non sono certo «sfiniti» come quelli omerici, eppure anche le anime dell’inferno definiscono la vita che hanno lasciato «vita serena», «dolce mondo», anche quando è stata tragicamente macchiata di sangue, come quella di Francesca e di Paolo. Anche il conte Ugolino interrompe per poco il suo orrido pasto cannibalesco per raccontare con estrema dignità gli ultimi giorni della sua vita.
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