Tommaso Romano, "Nel Labirinto, nel deserto" (Ed. Plumelia)

di Amalia De Luca
 
 
Il più piccolo per dimensione, il più grande per validità poetica: diciotto perle splendenti da ammirare e comprendere nel loro significato universale.
La poesia, nella sua accezione comune, non deve subire la mediazione dell’erudizione, né della pseudo-cultura. Deve trasmettere verità non in senso morale ma come reale esperienza dello spirito cioè del pensiero fuso con l’immaginazione, con le suggestioni, con la musica -armonia universale.
Tutte le tecniche possono essere adottate tranne la banalità del dire sia nel contenuto che nella forma.
La struttura dell’opera di Tommaso Romano NEL LABIRINTO, NEL DESERTO è quella di un poemetto di 200 circa versi che raccontano una storia, un episodio della vita in diciotto momenti tutti correlati fra di loro.
 Non è un diario prosastico e insignificante ma una narrazione che, sia nella forma che nel contenuto, è caratterizzata dalla metamorfosi del pensiero che assume una fortissima valenza poetica anche per l’uso frequente della metafora, dell’analogia, dell’alliterazione, dell’enjambement con attenzione alla fonetica e alla semantica.
È la storia di una situazione spirituale che si pone nello spazio tra l’umano e il sublime al limite tra la perdita di orientamento e la ricerca di libertà spirituale.
(Anche l’accettazione del dolore a volte è sublime quando oltrepassa la soglia del limite umano.)
È un itinerario esistenziale difficile, impervio, contorto, labirintico, circolare Irripetibile che scorre da una stazione all’altra per una via che mi fa pensare alla via crucis di evangelica memoria.
 Fortissimo si rivela sin dall’inizio l’anelito mai spento di libertà e forza spirituale compromesse da esperienze desiderate, vissute e demolite dallo stesso contesto sociale nel quale il poeta si muove.
Per comprendere l’evoluzione lenta e faticosa della metamorfosi poetica dell’autore analizziamo i suoi versi.
Sin dai primi momenti appare evidente:
 
 il desiderio di fuoruscire dal labirinto “un assestamento di esaurite stagioni circolari/ e di passioni in cicatrici aperte” “complice del labirinto che si apriva/ come in tutti gli ammalianti/labirinti/ negando ogni fuoruscita invocata/ a “pur labile approdo.” “trama inestricabile/ che non si scioglie” e poi a seguire
 
la delusione “in verità fu oblio alla prova del cammino“ /visioni allucinate/ per subito tentare di evadere al groviglio di sterpi”   “afasia e falsi inganni/ necessitate incertezze a decidere” “contemplare a cielo aperto la scia delle stelle negate all’arsura” “ vagabondare tra viali sconnessi”
 
Il trascorrere del tempo “e con l’autunno / s’assaporò la luminosa fioca / notte settembrina / a lambire anima e corpo / a invocare sperdute bussole / d’orientamento / tra foglie vive e morte / l’addio o la luce, non attendendo / il consumarsi della residua / resistenza”, “ulteriori non capaci smarrimenti”
 
 la nostalgia “il gusto d’un sapore/ che tornava d’improvviso/ senza scontato raziocinio/ anelando aurora a perdi vista/ e non godendo di ripiombanti tenebre…”
 
lo smarrimento “altro fu scrivere, leggere/ di selve oscure e labirinti borghesiani / altro fu il trovarsi ingabbiati /impigliati
 
la memoria “la nostalgia assale dolcemente/ d’altri e migliori tempi d’armonia/ strappati da un giuramento ingiusto”
 
 l’immagine simbolo (immagine leggera intatta e unica) “una rossa farfalla a rammentare il tempo che fu” “senza usure senza ricambi”
 
Il dolore del ritorno “prolungamenti gnostici/ di fantasia, ironia e dolore/a far compagnia/ a non fragili piante succulente /a inappassibili fioriture, forse, alla parole incise” “oltre” “al suono che dionisicamente aveva compimento”
 
 la presenza degli archetipi (parole simboli eterni) “guardavano” “rispecchiandosi ad essere” “ma ogni fioritura rosea/ alfine s’appassisce come per un calvario"
 
la presenza del vuotoora, un anfratto/ accoglieva la confessata parola/ora gli immemori vuoti/fasciati d’achmea” “Gli occhi, però, come nei laghi cristallini/ dicevano dell’infinito profondo”
 
la paura dell’inesistenzaTanto era ingiusto anche albergando nel limbo,/ a scontare in limine/ ciò che non pareva inferno/ né designava sorte ”
 
la desertificazione dell’io “A che vale il dono di esserci/qui la terra è solo polvere/ inciampando alle radici/ apparve un muro di legno e sassi/ che alludevano al mare”
 
Proemio di libertà “poi un varco assai angusto/ che ingannava proemio di libertà/ e, ancora, invece canne di bambù/ natura naturata fra fitta boscaglia/senza geometrie”
 
Stasi “e si fermò/ come l’alchemico poeta morto/ desiderando e implorando/ di tramutarsi in tronco/lì, al confine agognato".
 
Il destino comune  “ma gli Dei/ non scelsero neppure loro/
un qualunque destino.”
                               
 
 Conclusione
 
In considerazione del fatto che la poesia è e deve essere comunicazione, questa magia si compie quando esiste già nell’immaginario del lettore, sia pure inespresso, quello che viene rappresentato dal poeta. Si stabilisce perciò una sintonia polivalente che muta da persona a persona da epoca a epoca; ma la poesia, quella vera, non muore, è destinata all’universalità e all’eternità. Ne sono prova i grandi lirici greci, la poesia epica d’Omero, Virgilio, Tasso, Ariosto e i grandi che nei secoli si sono avvicendati.
Ai poeti è data in sorte l’innocente metamorfosi del destino fino alla sublimazione del dolore di vivere che molti chiamano l’oltre. E poiché l’esperienza umana con le sue sconfitte i suoi successi, il suo dolore le sue gioie, l’alternarsi delle stagioni la giovinezza e la vecchiaia, la morte, sono temi comuni agli uomini di sempre e soggetto di grande poesia, Tommaso Romano, ancora una volta, a me pare, un prediletto testimone del suo valore universale.
 
 
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