“Domina Bacharia. Murale di Claudia Clemente e Filippo Calvaruso” – di Piero Montana
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- Category: Arte e spettacolo
- Creato: 03 Giugno 2024
- Scritto da Redazione Culturelite
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Tuttavia il nostro Branciforti non fu il fondatore della nostra città in quanto venendo a stabilirsi nelle nostre contrade a quel tempo quasi del tutto disabitate, non pensava affatto ad assumerne il ruolo che gli si attribuisce, giacché in preda a quelle, che oggi chiamiamo crisi depressive, scelse di rifugiarsi come in un eremo in queste terre “solinghe e oscure”, che meglio sembravano addirsi al suo temperamento malinconico.
Della malinconia del Conte di Raccuja noi abbiamo parlato nel nostro libro “Bagheria esoterica”, e qui non è il caso di soffermarci ancora su di essa.
Diremo però semplicemente che il temperamento melanconico del nostro Branciforti faceva sì che egli dicendo addio alla corte palermitana, ricercasse invece quella quiete in cui vivere in maniera appartata gli ultimi anni della sua vita.
Pertanto, a nostro modo di vedere, si travisa la sua figura quando gli si vuole assegnare un ruolo di primo piano nella storia di Bagheria, della quale in molti finiscono per fare il fondatore, motivati dal fatto che nello stemma della nostra città effettivamente troviamo accanto alla figura della vite, che veniva coltivata nelle nostre campagne anche l’emblema della famiglia Branciforti, ossia la figura del leone rampante.
E’ pertanto una lieta e felice sorpresa vedere che in un’opera di due bravissimi artisti bagheresi, Claudia Clemente e Filippo Calvaruso, un grande murale realizzato in via Bernardo Mattarella di fronte la Gelateria Anni Venti, questi due nostri artisti, volendo raffigurare emblematicamente la nostra città, non hanno in esso inserita la figura di Don Giuseppe Branciforti bensì il ritratto di Ferdinando Francesco Gravina Junior, VI° Principe di Bagheria, ossia l’autore di quei singolari ornamenti della sua villa celebre in tutto il mondo per essere la villa dei mostri.
Questo ritratto del Principe di Palagonia, eseguito con perizia e maestria, è assai fedele a quello che troviamo affrescato in questa nostra villa.
Esso mostra la figura distinta di un nobile, di un aristocratico, i cui tratti ci mostrano chiaramente un uomo esente da imperfezioni fisiche e anche da turbe mentali che su di essi avrebbero proiettato, oscurandoli, la loro ombra.
E’ dunque quella del nostro Principe di Palagonia la figura di un uomo normale, non deforme e palesemente sano di mente, la figura pertanto di un uomo distinto che non corrisponde affatto a quella inventata dai suoi detrattori, che non condividendo le sue idee assai originali ed eccentriche, lo dipinsero nelle sembianze di un essere deforme nonché folle, privo di senno.
A riguardo richiamiamo l’attenzione su quanto abbiamo scritto in Bagheria esoterica riguardo addirittura alla diagnosi psichiatrica del nostro Gravina, fatta da due medici amburghesi, Helen Fisher e Wilhelm Weygandt, che, pur non avendolo mai conosciuto, essendo essi vissuti due secoli dopo il Palagonia, ipotizzarono una patologia psicotica del nostro aristocratico che lo avrebbe portato a esorcizzare il complesso della sua bruttezza, circondandosi di << amici (i mostri) >> turpi quanto lui.
La figura del nostro aristocratico, quale risulta anche dal ritratto che ne hanno fatto nel murale i nostri due artisti, è pertanto quella che un coscienzioso bagherese dovrebbe tenere a modello, perché il Palagonia, uomo retto e religiosissimo, non poteva non criticare i tempi davvero diabolici in cui visse. I tempi dei filosofi illuministi, che sostituirono Dio con un idolo, la dea ragione, e che pertanto vennero a considerare la religione frutto della superstizione e della fantasia. Filosofi, gli illuministi, che nel divulgare le loro idee promossero non solo tra gli intellettuali ma anche nei ceti più popolari un’apostasia di massa, ossia il rinnegamento della fede cristiana e conseguentemente la professione d’ateismo.
Tempi dunque davvero diabolici quelli del “secolo dei lumi” che spinsero il nostro Ferdinando Francesco Gravina a chiedere con la sola forza della preghiera l’intervento di Cristo, in un mondo, che ai suoi occhi, nel tempo in cui visse, sembrava precipitare e perdersi in un abisso, spalancando per tutti quelli, che furono affascinati dalle nuove idee filosofiche, le porte dell’Inferno.
Inferno che ancora oggi per tutti quelli che sono narcotizzati dal materialismo, che caratterizza il mondo moderno, non è più una realtà che riguarda la loro vita futura bensì anche quella presente, presi come sono dalla febbre dei falsi ed impellenti bisogni da soddisfare, che la società dei consumi induce in loro.
Per tornare al murale dei nostri due bravi artisti bagheresi, non possiamo dunque non considerare importante la scelta da loro eseguita di inserire nella loro opera, perfettamente riuscita dal punto di vista artistico, la figura del Principe di Palagonia.
Figura questa emblematica di una città che nell’arte in senso ampio ha trovato il suo riscatto intellettuale e dunque anche spirituale dal materialismo volgare e grossolano proprio del tempo in cui viviamo.
Pittori, poeti, scrittori, fotografi, registi come Renato Guttuso, Ignazio Buttitta, Dacia Maraini, Ferdinando Scianna, Peppuccio Tornatore per citare i più noti a livello internazionale, sono testimonianza del fermento culturale, ideologico e spirituale che ha sempre contraddistinto la nostra città, in cui – non dimentichiamolo – vivono ed operano tanti altri artisti che contribuiscono a rendere vivo, ossia ad animare, lo spirito innato e creativo, congeniale all’anima in particolare di tutti quei bagheresi che nella poesia come nell’arte ha trovato e trova pienamente la sua felice espressione.
Il murale di Claudia Clemente e Filippo Calvaruso vuole- dicevamo – rappresentare nel suo insieme l’emblema di questa nostra città. A tal fine i nostri due artisti hanno raffigurato in primissimo piano l’immagine di una giovane popolana, dal cui collo pende una medaglia, nella quale non poteva non essere dipinto lo stemma di Bagheria, raffigurante la vite ed il leone rampante, simboli di cui sopra abbiamo parlato.
Ma non è tutto, perché in basso sul vestito della giovane e fiorente popolana, i nostri due artisti hanno pure voluto figurare un mazzo di fiori bianchi di zagara.
Il colore bianco non può che evocare la purezza, la verginità, la spiritualità ossia elementi e stati dell’essere che favoriscono, producendola, ogni opera di sublimazione.
E come si sa, per Freud, per la psicoanalisi, è proprio attraverso la sublimazione, che si realizza ogni creazione artistica-culturale.
La zagara inoltre è il fiore dei nostri agrumi, delle piante coltivate nella nostra terra di Sicilia.
La zagara dunque è anche simbolo della fecondità della nostra terra. Fecondità relativa sia all’abbondante ed eccellente produzione dei nostri agrumi sia alla produzione culturale congeniale allo spirito, al Genius loci di questa nostra terra.
Per questo motivo i fiori bianchi di zagara, tra tutti i fiori, vengono scelti per formare il mazzo che la sposa porta in chiesa nel giorno delle sue nozze, perché -come dicevamo- essi sono il simbolo di quella purezza, verginità e spiritualità, che con la santificazione del matrimonio daranno i loro frutti.
Il mazzo dei fiori di zagara raffigurato in basso sul vestito della nostra giovane e bella popolana trova pertanto un suo riscontro in alto sullo sfondo del murale, costituito dalla raffigurazione di un aranceto, a sua volta sovrastato dalla porta murata di una delle entrate secondarie di Villa Palagonia. Porta magica sormontata da un arco, sopra il quale sono situati alcuni dei mostri fatti costruire dal nostro Principe.
In conclusione facciamo solo notare che in questa riuscitissima opera d’arte di Claudia Clemente e Filippo Calvaruso il soggetto figurativo, in essa rappresentato, non vuole essere solo realistico ma anche principalmente simbolico, volendo esso rappresentare l’emblema dell’anima geniale e creatrice, che, dal tempo del nostro Principe di Palagonia, ha sempre contraddistinto questa nostra città di Bagheria.
L’anima, se volete, di una follia non patologica, di cui già nel Cinquecento un umanista come Erasmo da Rotterdam scrisse l’elogio, considerandola, a ben vedere, il vero e prezioso sale della terra.