"Mi chiamo Zaire" un'opera di Sebastiano Caracozzo alla mostra di Marineo - di Anna Maria Esposito

Il corpo brunito, celato dal mantello sontuoso, è il soggetto scelto da Sebastiano per denunciare la realtà della schiavizzazione femminile. Dramma nel dramma: le giovani donne, poco più che bambine, sono  schiavizzate, comprate, vendute, nell'indifferenza dell'Occidente ipocrita, che proclama l'accoglienza e poi non vede, misteriosamente, le decine di migliaia di corpi sofferenti per le strade; anzi, ne approfitta: valutazione realistica, se guardiamo le cifre di questo sfruttamento.

"Mi chiamo Zaire"...

Lo sguardo commovente ed intenso, velato di lacrime, di una sontuosa ragazza , regale nella sua solida nudità, che si copre con eleganza, pur dovendo esporre il suo corpo...

Zaire, per quanto sia forzata, mai sarà una prostituta. Soltanto una triste, dolente, monumentale bellezza piegata alla volgarità.

Ci chiede aiuto. Centinaia di migliaia di Zaire sono buttate sul selciato a soddisfare i luridi appetiti di perbenisti e di popolani.

Chi salverà Zaire?

In una società, la nostra, abbandonata al disordine, nella quale è cancellata l'idea stessa del male morale, una società che fa della sessualità un idolo imperioso e che acceca, chi salverà Zaire?

La risposta è fastidiosa ma concreta: noi, dobbiamo salvarla. La deriva del nostro Mondo è responsabilità di tutti noi. Ognuno faccia la sua parte: guardare altrove ci rende colpevoli.

Nessuno se ne  lavi le mani.

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