“DADAADALDA” di Guglielmo Peralta

       Il titolo di un’opera, solitamente, è il suo biglietto di presentazione; è un’anticipazione, una sintesi dell’argomento o del tema centrale, che col suo sviluppo costituisce il corpo dell’opera e la sua anima, la forma e il contenuto. In sostanza, esso ‘promette’ e ‘mantiene’, a chi si appresta alla lettura, ciò che lascia intuire, senza molte sorprese o deragliamenti. In questa nuova silloge di Sergio Carlacchiani, l’eccezione «è» la regola. A partire dal titolo, nulla c’è, qui, di convenzionale, di dato, sia per quanto riguarda il linguaggio, che la convenzione vuole in stretto legame con le cose conosciute e che qui è sempre autonomo rispetto alla realtà oggettiva; sia riguardo alle strutture rigide della tradizione, della storia della letteratura, della poesia, in particolare, che il Nostro ignora volutamente e con le quali, inconsciamente, entra in frizione. La profondità, la varietà dei contenuti, la loro ramificazione, sono fattori, segni caratteristici e costitutivi del lavoro ad ampio spettro di Carlacchiani: poeta, scrittore, pittore, attore, regista, scenografo, il quale opera una ‘rigenerazione’ della propria tessitura creativa, al di là dei confini della tradizione culturale e poetico-letteraria, con risultanze di originalità, mutamento, innovazione, tali da mettere in discussione regole e modelli “datati”, collaudati e affermatisi nel tempo. La scrittura del Nostro, pertanto, è un ‘cannolo scomposto’ che ad ogni nuova creazione si ricompone in inedite figurazioni. E così accade per ogni forma d’arte, di espressione, di comunicazione, in virtù del suo eclettismo. Si ravvisa una sorta di “avanguardia”, tuttavia distante dal dadaismo che sembra echeggiare nel titolo, il quale costituisce un ossimoro, in quanto al presunto “balbettio” si contrappone l’effluvio del dettato poetico-discorsivo straripante nella silloge e che tanto somiglia al flusso di coscienza, già rilevato da Maurizio Soldini nella postfazione. Esso è un universo di percezioni del reale, di sentimenti, di emozioni e di relazioni vitali. E di grande vitalità e importanza è stata la conoscenza di Alda Merini, il cui nome echeggia nel titolo, che è una dedica e un elogio alla poetessa con la quale Carlacchiani strinse un’amicizia contrassegnata da empatia, fiducia, creatività condivisa e comprensione profonda, e incentrata sul bene e sul supporto reciproco necessari per lottare contro le barriere sociali, culturali, emotive restando aperti e benevoli verso sé stessi e, di riflesso, verso gli altri, e in contatto con l’ambiente circostante.

       C’è, in questa silloge, un nuovo sistema di valori, in cui s’intravede un’etica del lavoro intellettuale: la ricerca e la scelta di un linguaggio dal suono alto e potente, del tutto opposto alla lallazione del titolo e privo di stonatura. Perché vicino all’essenza delle cose e in grado di rendere alla vita quella grazia, che esso riceve dalla poesia, dal momento che - come scrive Heidegger - «Noi viviamo nel rumore dei linguaggi impoetici: le poesie sono come campane appese all’aria aperta, basta una leggera nevicata che le cada sopra per renderle stonate». E il titolo stesso non è una stonatura; è un’indicazione che rimanda oltre di sé, che introduce a un’attenta lettura del testo e invita - citiamo ancora Heidegger - alla «docile calma del libero ascoltare» per comprendere meglio il senso delle cose oltre ogni balbettio e “gioco” linguistico. Amore, vita, vecchiezza e morte, la storia come caduta, il declino dell’umanità, il disconoscimento della poesia come origine comune e, di contro, la sua celebrazione, sono temi forti, cari a Carlacchiani e ricorrenti nelle sue opere. Dalla sua attività eclettica emerge il suo essere uomo ‘integrale’ in quanto poeta:  “se scrivo sono tutto poeta uomo anima carne”. La poesia è, perciò, la sua ‘visibilità’; lo rende manifesto nella sua autenticità e completezza: - “preferisco usare me stesso in modo completo - sì che di lui possiamo dire con Hölderlin: «poeticamente abita l’uomo». Egli s’interroga e riflette sulle istanze sociali del presente, lamenta il degrado morale, spirituale, culturale di “questi tempi scatenati d’odio”; la banalità, l’indifferenza, la violenza nelle sue diverse forme e il collassare della società mondiale nel buco nero del nulla: - “il mondo mi sembra arido deserto le persone / che lo popolano palesemente infelici bevono si / drogano ammazzano e si ammazzano”. Mantiene e privilegia il rapporto intimo e viscerale con la propria soggettività, che non è però isolamento ma, al contrario, è la cifra che lo distingue e lo sollecita ad aprirsi all’altro, a scoprire l’essenza stessa dell’umanità e a rigettare ogni forma di materialismo. Ne risulta una visione spiritualista dell’uomo, al di là dei limiti e delle contraddizioni che lo caratterizzano: “Perdo tutta la possibile allegria (…) mi ritengo uomo forte da quando ho imparato a / restare solo non sarò mai un materialista (…) la mia religione preferita tradita purtroppo / è credere nell’essere umano”. Questa religione dell’anima rivela la spiritualità del Nostro, la quale non è separata dalla dimensione esteriore, fisico-materiale. E questa unità sostanziale, magnificata dalla poesia, lo rende partecipe della totalità; consapevole della natura ontologica dell’uomo e della sua irriducibilità alla sola dimensione terrena; lo volge “a comunicare con l’oltre”, a oltrepassare i confini dell’anima e del corpo, senza che venga meno il loro legame sancito dal linguaggio, in cui la parola si fa ‘testamentaria’: carne e spirito, umana e divina, sacra; rhema e logos: l’una, parola ‘detta ad alta voce’, tonante, corporale, sanguigna, querelante e, al tempo stesso, accogliente e desiderosa di accoglienza; l’altra, parola saggia, detta con autorità, che vuole comunicare un messaggio altrettanto ‘alto’, spirituale e, dunque, parola del cambiamento, della rinascita. Questa carnalità spirituale del linguaggio è ‘carlacchianesca’, caratteristica tipica, distintiva del nostro autore; ed è un topos: un tema e anche lo stile, presente e ricorrente nelle sue opere. È fortemente espressiva, eloquente, incisiva, intensa, nelle performance, nelle rappresentazioni teatrali, quando egli stesso si fa “teatro risonante d’apparizioni d’incredibili annunciazioni da sgranocchiare”. In Cinque strofe per una canzone, la poesia è la grazia che si annuncia, illumina e ‘condanna’; che toglie la libertà e “richiede incatenarsi al mondo”, anelando “in qualcosa di più alto”, di sacro, che esige “conversione, santità”; che sfugge, non si concede nel ‘mare’ dell’intimità, dove il nostro poeta s’immerge “per ascendere / in Cristo con dedizione totale come / palombaro che dedica sé amando senza / soluzione di continuità a cercare intime / profondità”, per ritrovare “il mondo” amando il prossimo come sé stesso. Questo amore che egli possiede in abbondanza, “da spendere”, è “fresca poesia sangue di spirito”, che non lo fa essere mai triste e gli dà speranza e fiducia, sì che può dichiarare: “voglio stare dentro al mondo”, in comunione, in carne e in spirito con gli umani; innamorato e folle in perenne delirio, che non è della ragione, ma è sentimento, passione, calvario, morte e resurrezione; “sogno poesia di vita alata”: la medesima sana follia di Alda, accettata e condivisa, perché febbre d’amore incontenibile, brama dell’Infinito, dell’Oltre inafferrabile, ineffabile, che mai si concede alla parola, la quale resta vuota, priva di voce, di espressione. Sempre iniziale e in cammino verso il linguaggio. E dunque, in questo caso, pura e semplice lallazione. DADAADALDA.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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