Dante Alighieri: un tomista “sui generis” – di Daniele Fazio
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- Creato: 29 Dicembre 2025
- Scritto da Redazione Culturelite
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- Linee storiche ed esistenze diverse
Dante Alighieri nasce nel 1265 esattamente quarant’anni dopo la nascita di fra Tommaso d’Aquino. Saranno contemporanei solamente per dieci anni in quanto il santo teologo morirà nel 1275. La vicenda esistenziale e formativa di Tommaso respira pienamente la pienezza del XIII secolo, l’apice della cultura universitaria medievale nonché i dibattiti culturali e teologici propri del suo tempo a partire dall’interpretazione di Aristotele (384-322), dal ruolo dei religiosi – francescani e domenicani – rispetto ai sacerdoti secolari all’interno delle Università e soprattutto l’articolazione di una nuova proposta relativa al rapporto tra la fede e la ragione, tenendo in conto la filosofia aristotelica. L’epoca di Tommaso vede a governare l’Europa due grandi personaggi molto diversi tra loro: Federico II di Svevia (1194-1250), imperatore del Sacro Romano Impero che entrò diverse volte in contrasto con il papato, tanto da essere scomunicato per ben tre volte, e che più che ad ideali cristiani ispirò la sua azione politica ad una sorta di sincretismo, e san Luigi IX (1214-1270), re di Francia che incarnò l’ideale del re cristiano consolidando la monarchia nazionale senza dimenticare i superiori interessi della cristianità. Otto papi si succedettero da Onorio III (1216-1227) che approvò l’ordine dei frati predicatori nel 1216 a Gregorio X (1271-1276) che riconoscendo la sapienza teologica di Tommaso lo invitò a partecipare al Concilio di Lione nel 1274. Proprio sulla via verso il Concilio, Tommaso, presso l’abbazia benedettina di Fossanova morì[1].
Dante Alighieri è anch’egli uomo pienamente medievale, ma la sua maturità è stata vissuta nel periodo immediatamente successivo a quello di san Tommaso, vedendo nella produzione filosofica e teologica dell’Aquinate una fonte autorevole, ma al tempo stesso messa fortemente in discussione da dibattiti che addirittura ne minano l’ortodossia mossi da intellettuali che sposano la linea neoplatonica e agostiniana, così come sempre più si fa avanti un aristotelismo interpretato contro la lezione di Alberto Magno (1193/1206-1280) e Tommaso d’Aquino e affidato alla lettura dello Stagirita fornita dalla tradizione araba di Averroè (1126-1198) e Avicenna (980-1037). Dante vive la crisi dell’Impero che segue all’estinzione della dinastia di Svevia, agogna l’istituzione di un Impero universale, registra la debolezza del Sacro romano impero storicamente molto debole al suo tempo e centrato sulla Germania, sperando nelle azioni risolutive dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo (1275-1313). Così come vive le vicissitudini del papato fino all’elezione al soglio pontificio del cardinale Benedetto Caetani, Bonifacio VIII (1230-1303) e al trasferimento ad Avignone della Sede pontificia. Egli è pienamente inserito nella sua città, anche come uomo politico e come tale è protagonista delle diatribe feroci tra guelfi e ghibellini tanto da farne le spese in prima persona con l’esilio[2].
Dante, quindi, sostanzialmente condivide con san Tommaso la visione teleologica cristiana che può essere così sintetizzata: l’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio, da Dio viene e verso Dio è diretto quale suo fine, quindi tutta la sua esistenza terrena deve essere strutturata a partire dal raggiungimento di questo felice esito. Pur nella diversità storica, se questo è il quadro esistenziale, metafisico e teologico condiviso, in quanto insito nel medesimo orizzonte cristiano, all’interno dello stesso solco appaiono notevoli differenze che a mio parere nascono, non solo da una diversa periodizzazione storica, ma anche dalla netta diversità che intercorre tra Alighieri che è un poeta e uomo politico e Tommaso d’Aquino che è un religioso e un teologo.
Non è infatti da tralasciare la differenza di ruoli e vocazioni tra i due: Dante in quanto uomo politico, pienamente conscio della realtà temporale, delle lotte delle fazioni e delle gioie e delle pene che sperimentò sulla sua pelle, vive un’esistenza che oggi potremmo definire da laico cattolico, mentre Tommaso tratta strettamente da un punto di vista teologico la questione del rapporto tra il temporale e lo spirituale e permane nell’ottica della teologia quale scienza più nobile e del primato dello spirituale sul temporale. L’esperienza di Dante, invece, lo porta in un certo modo a teorizzare, forse il primo, l’autonomia e la separazione – intesa ovviamente non in senso moderno-illuministico – del temporale dallo spirituale.
Ulteriormente anche la diversa formazione marca le differenze. È vero che Dante studierà – seppur tardivamente e in controtendenza rispetto ai letterati del suo tempo – filosofia e anche teologia e se di filosofia dantesca si può parlare bisogna senz’altro affermare che quella del sommo poeta è la filosofia di un cristiano[3] che non vuol dire necessariamente una filosofia d’impronta tomista. Nonostante questo però egli resterà sempre un poeta. E a tal proposito, si deve dunque necessariamente tenere presente che il lavoro filosofico e teologico vincola chi lo esercita alla produzione di concetti e argomentazioni logico-razionali soprattutto per un teologo che ha da descrivere l’insegnamento della fede in maniera precisa e senza debordare in originalità di carattere estetizzante.
L’espressione poetica, invece, implica l’originalità, l’utilizzo di immagini e figure retoriche, ragion per cui il poeta attraverso i suoi versi pur considerando le verità di fede e avendo come per Dante un intento pedagogico, si può avvalere di molta più autonomia anche in relazione allo stesso dogma. È emblematico quanto ad esempio – in controtendenza alla ortodossia cristiana – emerge dal Canto XIII dell’Inferno della Divina Commedia, l’idea secondo cui i suicidi neanche alla fine dei tempi uniranno il loro corpo alla loro anima, ma saranno condannati a mirare i loro corpi. E ciò per sottolineare il tremendo peccato del rifiuto della vita commesso (cfr. Inf. c. XIII). Ètienne Gilson (1884-1978) sottolinea propriamente che «i poeti usano metafore perché gli uomini non amano solo che si spieghino loro le cose, ma anche che le si facciano loro vedere. Il sensibile può rappresentare l’intelligibile solo seguendo la propria natura e le proprie leggi: è questo il giusto punto di vista per capire la Divina Commedia, e persino la sua [di Dante] teologia. Il suo senso più profondo è tutt’uno con il potere della sua bellezza»[4].
Sia Dante che Tommaso, però, seguendo bene la propria stella (cfr. Inf. c. XV, vv.55-57), ossia la propria indole – che in un orizzonte cristiano è la propria vocazione – si stagliano ancora oggi come fulgidi maestri per la realizzazione integrale dell’uomo attraverso le loro cattedrali letterarie e teologiche.
- Divergenze dottrinali
Se dovessimo sinteticamente enucleare le divergenze di prospettiva all’interno delle due visioni, esse si dipanano proprio sul crinale sopra accennato e inglobano dunque la prospettiva antropologica e politica in ordine alla finalità sia terrena che soprannaturale[5].
L’uomo, per Dante, è costituito da anima e corpo che sono indubbiamente tra loro connesse e tuttavia emerge come siano però marcate due nature diverse: l’anima è immortale e incorruttibile, mentre il corpo è corruttibile e destinato alla morte. L’uomo, dunque, porta con sé e partecipa di entrambe le nature[6].
Per Tommaso, la natura dell’uomo è un’unità sostanziale di anima e corpo, l’anima intellettiva è la forma del corpo[7] e come tale ciò che caratterizza in maniera preminente la natura umana e fa sussistere il corpo, in quanto essa proviene direttamente dal Creatore. Nel composto umano, dunque, viene sottolineato il primato dell’anima spirituale: una natura dunque ma gerarchicamente ordinata.
Dalla teorizzazione delle due nature dantesca deriva che vi sono due fini ultimi e non un fine duplice come per Tommaso[8]. Dante sottolinea che alla natura del corpo corruttibile deve corrispondere, nell’ordine terreno, una sorta di beatitudine in questa vita, ossia una felicità intra-terrena, mentre per Tommaso il fine duplice considera che il vero e unico fine ultimo dell’uomo è la beatitudine eterna. Non nega la realizzazione anche terrena ma essa non assume una finalità autonoma: l’orizzonte intra-terreno è relativo[9].
Di conseguenza cambiano anche i mezzi per poter conseguire tali fini, per Dante la beatitudine terrena si consegue mediante la sola ragione umana, grazie all’insegnamento dei filosofi ed in particolare di Aristotele, che è valorizzato da Dante soprattutto per la sua prospettiva etica. Proprio nell’etica dello Stagirita Dante trova le indicazioni morali che permettono all’uomo e anche al politico, in primis all’imperatore, di poter orientare i propri sforzi nell’ordine del bene terreno. La beatitudine ultraterrena, sempre per il sommo poeta, invece, si deve avvalere delle virtù teologali, grazie all’insegnamento delle verità rivelate che sono appannaggio della Chiesa e quindi della sua più importante autorità che è il Papato.
Ne discende ovviamente che tali ordini sono distinti e sovrani nel proprio ambito e i tentativi di invasione di campo o meglio di ingerenza risultano, per Dante, equivalenti al peccato di tradimento. Dante colloca così l’orizzonte teologico nell’Empireo[10], che non è un cielo astronomico da poter penetrare con la ragione ma il cielo spirituale dove abita Dio e pertanto la teologia incide nella descrizione di queste alte verità ma non nell’organizzazione della società e nelle indicazioni morali per i governanti che sono appannaggio dell’etica di Aristotele: «Dante fa della teologia una colomba pura ma non una regina, e delle altre scienze, altrettante regine e non ancelle»[11]. La teologia per Dante è elevata oltre la natura per la sua soprannaturale verità e quindi separata dalla natura corporea, né su essa ha una incidenza diretta.
L’Aquinate, invece, si preoccupa dei mezzi per ottenere unicamente la beatitudine eterna che riguardano precipuamente le virtù teologali, che discendono dalla grazia e dalla conoscenza delle fondamentali verità rivelate, che sono oggetto di studio, anche con la ragione, della teologia. Essa infatti per Tommaso è propriamente una scienza sia speculativa che pratica. In questo senso, la teologia incide anche sul temporale per guidare le sorti dei popoli. Le altre scienze a partire dalla filosofia sono coordinate e volte a questo fine teologico. L’intelletto umano può solo beneficiarne e trovare più vivido orientamento anche nelle faccende terrene. La dinamica di natura e grazia tommasiana emerge così con i suoi riflessi anche pratici nel rapporto tra l’ordine temporale e quello spirituale: la grazia non abolisce o peggio distrugge la natura, bensì la presuppone e perfeziona[12].
Come già si può comprendere, nell’orizzonte di Dante, esistono due autorità – Il papato e l’impero universale – che sono supreme nel proprio ambito. Il papato trae da Dio la sua autorità, mentre il potere temporale non la trae dal papato e non è ad esso soggetto per il fine terrano, bensì la trae da Dio e dalla tradizione dell’impero romano[13]. Pertanto, ogni tentativo di ingerenza viene condannato. La teoria dei due soli[14] di Dante è l’immagine con cui il poeta ci offre questa sua visione. Le autorità altresì sono fondamentali perché l’uomo da solo non può raggiungere i fini delle sue nature, se non ci fossero errerebbe. È necessario, dunque, che l’imperatore – tramite ragione naturale – aiuti gli uomini a perseguire la beatitudine in terra e il papa – tramite Rivelazione – aiuti gli uomini a conseguire la salvezza eterna.
Per Tommaso, intanto non esiste un impero universale che sia una sorta – come per il poeta fiorentino – di omologo terreno della Chiesa. Il De regimine principum del Doctor angelicus è rivolto ad autorità in fondo sempre locali. L’unica autorità suprema è quella del Pontefice che detiene entrambi i poteri e pertanto, ne consegue, anche da un punto di vista giurisdizionale una subordinazione del temporale allo spirituale ma ciò è perfettamente dato dalla ragione dell’unico fine descritto dall’Aquinate. I poteri è bene che siano distinti e i re è giusto che governino i popoli ma l’autorità unica che aiuta tutti a salvarsi è quella del chierico e della Chiesa, per cui ne deriva una gerarchia di poteri.
Si può, in definitiva, affermare che l’ottica di Dante è quella dell’autonomia e della separazione, seppur vi sia sempre un accordo nel riferimento a Dio tra i vari ambiti, mentre la prospettiva tomista implica una reale distinzione ma nell’ottica di una unità gerarchica del tutto, la distinzione è per l’unità in Tommaso. In Dante invece indulge alla separazione e quindi ad un irriducibile dualismo. Tommaso distingue per unire, Dante distingue per separare.
- Il ruolo di Tommaso nella Divina Commedia
Tenuto conto di queste divergenze e considerando l’opera somma di Dante quale sintesi pedagogica e morale nonché apice estetica del poeta fiorentino non bisogna chiedersi se la Divina Commedia rispecchi il tomismo, bensì che ruolo e posto prende Tommaso e la sua teologia all’interno del poema sacro. Secondo Gilson, «san Tommaso e la sua teologia vi occupano un posto d’onore […] Egli, tuttavia, non è il solo teologo a comparire in essa poiché San Bonaventura [1221-1274], per non parlare di San Bernardo [1090-1153], vi fa da pendant al Dottore domenicano. Dante, dunque, ha inserito la teologia tomista nella Divina Commedia ma non si può dire che abbia inserito la Divina Commedia nella teologia tomista»[15].
Per meglio comprendere questo bisogna ricordare che la Divina Commedia descrive l’universo dantesco: ora per Dante i due grandi ordini che lo compongono sono quello temporale e quello spirituale. Il funzionamento dei due è autonomo e soprattutto l’errore da evitare è esattamente quello di confonderli in modo tale che chi sia deputato all’uno non ingerisca nell’altro e viceversa.
L’ordine temporale è retto dall’imperatore il cui fine è quello di far conseguire ai suoi sottoposti la felicità terrena. Egli in questo suo ruolo si deve ispirare alla ragione naturale. Essa da sola basta per tale missione. L’apice di quanto la ragione ha prodotto in ambito morale, per Dante, è rappresentato da Aristotele e dai suoi insegnamenti dell’Etica Nicomachea. Non è un caso che nel Limbo, tra gli spiriti magni, il filosofo greco abbia un posto d’onore e da tutti venga ammirato: «Poi ch’innalzai un poco più le ciglia, /vidi ’l maestro di color che sanno /seder tra filosofica famiglia. / Tutti lo miran, tutti onor li fanno» (Inf. c. IV vv. 130-133).
L’imperatore allora non deve fare l’uomo di scienza, bensì seguendo l’esempio del re di Giuda, Salomone, deve essere saggio. Ma da dove deve trarre tale saggezza naturale? Essa per Dante, soprattutto nell’ambito morale è riscontrata nel maestro che più di tutti indica la via della realizzazione terrena, ossia lo Stagirita. In questo orizzonte come ben si comprende è esclusa sia la teologia che il ricorso al soprannaturale. Il temporale retto dall’imperatore è soggetto alla filosofia ed in quest’ordine – ossia quello della sapienza e della felicità terrena – anche lo stesso Papa è soggetto all’autorità aristotelica.
Nell’ordine spirituale, invece, a emergere è la figura del Papa che trae dalle verità divine e dalle virtù teologali le indicazioni per poter guidare l’umanità alla salvezza. Il riferimento dunque non è alla ragione naturale bensì alla teologia e primariamente alla Rivelazione. In tale campo, è certamente sovrana la Chiesa e bisogna che l’imperatore non ingerisca. Dunque, l’imperatore per reggere i popoli si ispira alla sapienza naturale, tale sapienza naturale ha un capo che è Aristotele, nell’ordine spirituale l’imperatore, essendo cristiano, è il primo figlio del Papa, ma allo stesso tempo non deduce dalla teologia gli strumenti per la felicità terrena, né dalle indicazioni temporali dei pontefici. Dall’ordine spirituale non discende quello temporale. Il Papa, altresì, nelle questioni terrene segue Aristotele e obbedisce all’imperatore. Dante è sofferente del chierico che fa il politico e viceversa. Dunque, la concezione di Dante si sviluppa attraverso l’esplicitazione di ambiti autonomi e tali devono rimanere perché voluti così da Dio, l’accordo è ab origine in Dio stesso. Allo stesso tempo, una tale separazione non fa di Dante un laicista, in quanto tutto è pervaso dal volere divino e il temporale porta in sé una grazia specifica. Esiste in sé e tra la sua luce da Dio.
Compreso tale orizzonte, può risultare più chiaro intercettare la posizione di Tommaso all’interno della Divina Commedia e per fare questo occorre vedere in modo unitario i canti X-XIII del Paradiso. Siamo nel cielo del Sole, ove sono presenti gli spiriti che si sono distinti per sapienza e che come tali sono più lucenti dello stesso astro maggiore. In tale contesto, s’avanza uno spirito a soddisfare la sete di giusta conoscenza di Dante. Questi è proprio Tommaso d’Aquino che si presenta quale appartenente al gregge di san Domenico di Guzmann[16] (1170-1221) nel cui contesto se si segue la regola ci si arricchisce spiritualmente. Successivamente Tommaso verrà affiancato dall’altro grande teologo medievale francescano Bonaventura da Bagnoregio.
La loro presenza simultanea nelle dinamica della Divina Commedia fa emergere innanzitutto l’attenzione, senza dubbio anche storica, agli ordini mendicanti, il francescano e il domenicano, che sembrano aver sbiadito il carisma delle origini in quanto si occupano non più di beni duraturi[17], ossia quelli spirituali, ma delle vicende temporali. Tommaso farà il panegirico di san Francesco d’Assisi (1181/1182-1226) e ricorderà ai domenicani che oltre ad essere predicatori della fede devono osservare il voto di povertà, mentre Bonaventura farà il panegirico del fondatore dei domenicani e ricorderà ai francescani che la professione del voto di povertà non li esenta dalla predicazione della fede. In questi reciproci rimproveri, tuttavia, emerge non semplicemente il problema della crisi degli ordini mendicanti al tempo di Dante, ma ancora una volta la pressante esigenza di Dante di affermare che il religioso deve orbitare nell’ambito dello spirituale senza ingerire nell’ordine temporale.
Quest’ultimo in questo tratto dell’itinerario dantesco non a caso è ben presente grazie alla figura del Re Salomone, che viene elogiato da Tommaso proprio per aver chiesto a Dio la sapienza per amministrare la giustizia nel governo dei popoli[18]. Salomone chiese la saggezza naturale non la scienza. Ne consegue che il politico non deve aspirare a fare il filosofo o l’intellettuale ma deve semplicemente essere un buon amministratore. Sappiamo che l’ispirazione e la conoscenza per l’amministrazione della giustizia deriva dalla ragione naturale e dunque dalla filosofia aristotelica che Dante ritiene e interpreta come autonoma dalla teologia.
A conferma di questo, Dante indica l’ordine della filosofia, quella autonoma dalla teologia, anche nel Paradiso. Non potendo, tra i beati, esservi la figura di Aristotele – la filosofia pura è rappresentata dalla controversa presenza di Sigieri di Brabante[19] (1235?- 1281/1284). Egli fu un filosofo del XIII secolo e maestro della arti liberali presso l’Università di Parigi. Il cuore delle sue riflessioni fu l’accentuazione della separazione della filosofia dalla teologia e quindi della ragione dalle fede, venendo in questo influenzato dalle letture averroistiche di Aristotele ma anche della linea neoplatonica. Tommaso storicamente scrisse contro tali teorie, pur non nominando esplicitamente Sigieri, il De Unitate intellectus contra averroistas e il brabantino venne condannato dal vescovo di Parigi Stefano Tempier (? - 1279) per ben due volte nel 1270 e nel 1277 per le sue dottrine sull’intelletto ritenuto ostili alla fede.
Nell’ambito della Divina Commedia, però, avviene dell’incredibile: Sigieri è presentato proprio da Tommaso d’Aquino ed è assiso alla sua sinistra. A Sigieri vengono dedicate due terzine – una sproporzione rispetto alle presentazioni dedicate alle altre figure – da cui emerge che il filosofo dovette soffrire l’invidia dei suoi contemporanei per via delle verità da lui conquistate[20].
Dante lo pone accanto a Tommaso facendo tessere dal principe dei teologi anche le lodi, non tanto per una sorta di riconciliazione post-mortem, ma perché – nel sistema di Dante – Sigieri rappresenta la filosofia pura: ossia la sapienza naturale, autonoma dalla fede e dalla teologia, che trova quindi anche la glorificazione e la legittimazione nel suo Paradiso.
Tale mossa originalissima di Dante non è né una presa di distanze da Tommaso d’Aquino e dall’idea secondo cui la filosofia possa essere ancella della teologia, né tantomeno un avallo dell’averroismo latino e alla dottrina della doppia verità attribuita – forse falsamente – allo stesso Sigieri, bensì l’indicazione della distinzione degli ordini che qui viene “canonizzata”. Del resto – fa notare Étienne Gilson – nell’ordine dantesco, «una teologia tomista non solo si può conciliare con una filosofia che deriva i suoi principi solo dalla ragione naturale, ma la esige, e poiché Dante la esige […] è con piena cognizione di causa che ha fatto pronunciare da Tommaso d’Aquino l’elogio del filosofo puro Sigieri di Brabante»[21]. Dante condurrà la medesima operazione, sempre nello stesso ambito letterario, ma che esula da tale argomento, in relazione alle figure di san Bonaventura da Bagnoregio e di Gioacchino da Fiore (1135-1202).
- Un tomista sui generis
Se si penetra l’intento più genuino della Divina Commedia e se si obbedisce alla sua legge interna, leggendo i personaggi danteschi come rimodulati alla luce della sua arte e delle sue teorie sopra sintetizzate, la storia non può che piegarsi a questi intenti. Se, dunque, da un lato, il Tommaso storico non si sarebbe mai trovato nelle condizioni di elogiare Sigieri di Brabante, dall’altro Tommaso e la sua teologia possono entrare nel Paradiso dantesco solo se accettano l’autonomia della filosofia. Insistere su una interpretazione tomista della Divina Commedia è una forzatura che alla fine non riesce a spiegare neanche il cuore dell’opera. Tale tentativo venne fatto da alcuni neoscolastici del Novecento, come ad esempio Pierre Mandonnet[22] (1858-1936), ma non ne trovò d’accordo altri come ad esempio Étienne Gilson. Il pensiero di Dante non è unicamente tomista, bensì eclettico e coglie ogni autorità per l’ambito che egli vuol descrivere a partire però da una previa netta distinzione. Tutti possono trovare posto, ma nessuno deve invadere un campo non proprio.
Sigieri, quindi, è lodato proprio per il suo separatismo tra filosofia e teologia e ancora di più perché a causa di esso soffrì. Ciò permette a Dante di essere fedele alle sue priorità e al suo sistema di lealtà, egli «in un dato ordine […] ha sempre per capo colui che governa in quest’ordine: Virgilio [70-19] in poesia, Tolomeo [100-175] in astronomia, Aristotele in filosofia, san Domenico in teologia speculativa, san Francesco in teologia affettiva e san Bernardo in teologia mistica»[23].
L’impero si fonda su una filosofia pura, la Chiesa sulla teologia. Del resto a questa logica obbedisce la collocazione di ogni personaggio all’interno delle tre Cantiche ed è in essa la ragione per cui il papa Bonifacio VIII si guadagna un posto all’Inferno e Sigieri un posto nel Paradiso. Bonifacio rappresenta l’emblema dell’ingerenza nel temporale, mentre Sigieri la condizione senza la quale – ossia l’autonomia della ragione naturale – il temporale non può essere considerato separato dallo spirituale. Oltre questo, san Tommaso avrà un ruolo certamente importante e fondamentale ma anche in campo teologico cederà il passo a San Bernardo che con la sua teologia mistica accompagnerà il poeta nella unione totale dell’uomo con Dio, appunto alla contemplazione dell’ Amor che move il sole e le altre stelle (Par. c. XXXIII, v.145).
Tommaso e Sigieri per Dante, dunque, sono due simboli fondamentali e di conseguenza il Tommaso della Divina Commedia ha dovuto lasciare al Tommaso storico la confutazione di Sigieri, accettando che la distinzione e separazione della filosofia dalla teologia che non necessariamente inclina alla cosiddetta dottrina della doppia verità. Questa è l’unica via per comprendere nell’universo dantesco l’importanza del Doctor communis che certamente è piegata alle esigenze del suo pensiero e del suo simbolismo, ma che alla fine ci permette di scoprire, come in una visione superiore, ciò che storicamente è contrapposto può in qualche modo trovare unità senza parcellizzazioni ma anche senza assolutizzazioni tendenziose di una concezione rispetto all’altra ed è in Dio che alla fine – ad eccezione del male – coincidono gli opposti.
Daniele Fazio
[1] Due biografie che si raccomandano su Tommaso sono: Tito Sante Centi, o. p., Nel segno del sole. San Tommaso d’Aquino, ed. Ares, Milano 2008 e Gilbert Keith Chesterton, San Tommaso, pref. mons. Luigi Negri, Lindau, Torino 2008; Una sintesi fedele del pensiero filosofico e teologico invece è: Étienne Gilson, Il tomismo. Introduzione alla filosofia di san Tommaso d’Aquino, trad. it., Jaca Book, Milano 2011.
[2] Circa le biografie su Dante, si segnalano due testi recenti: Marcello Veneziani, Dante nostro padre. Il pensatore visionario che fondò l’Italia, Vallecchi editore, Firenze 2020 e Aldo Cazzullo, A riveder le stelle. Dante il poeta che inventò l’Italia, Mondadori, Milano 2020.
[3] É. Gilson, Dante e la filosofia, 1939, trad. it., con Editoriale di Costante Marabelli, Jaca Book, Milano 2021.p. 274.
[4] É. Gilson, Dante e Beatrice. Saggi danteschi, 1974, trad. it., Medusa Edizioni, Milano 2004, p. 122.
[5] Cfr. Irene Luzio, L’uomo: dalla sua natura alle supreme autorità, in www.culturelite.com, consultato il 6 dicembre 2025.
[6] Dante Alighieri, De Monarchia, III, 16. In tale contesto il sommo poeta spiega la sua visione antropologica, i fini dell’uomo e quindi pone le premesse per la netta distinzione tra temporale e spirituale. I seguenti riferimenti a tali tematiche dantesche sono dunque desunte dal suddetto testo, quando non è indicata un’altra opera.
[7] Tommaso D’Aquino, Summa theologiae, I, Q. 76, A. 1
[8] Idem, Sum. theol., II, Q. 5, A. 1
[9] Idem, Sum. theol., II, Q. 5, A. 3
[10] Dante Alighieri, Convivio, II, 13.
[11] Étienne Gilson, Dante e la filosofia, cit., p. 111.
[12] Tommaso D’Aquino, Sum. theol., I,1,8 A. 2
[13] Cfr. É. Gilson, Les métamorphoses de la citè de Dieu, tr. it., a cura di M. Borghesi, Le metamorfosi della città di Dio, Cantagalli, Siena 2010, pp. 145-184.
[14] «Soleva Roma, che 'l buon mondo feo,/ due Soli aver, che l'una e l'altra strada / facean vedere, e del mondo e di Deo», Dante Alighieri, Divina Commedia, Purg., c. XVI, vv. 106-108. Tutte le citazioni della Divina Commedia sono tratte dall’edizione Utet-Torino, a cura di Siro A. Chimez (1897-1962) edita per la prima volta nel 1962 e ristampata nel 2005.
[15] É. Gilson, Dante e la filosofia, cit., p. 219.
[16] Io fui de li agni de la santa greggia / che Domenico mena per cammino / u’ ben s’impingua se non si vaneggia (Par. X, vv. 94-97).
[17] Cfr. Daniele Fazio, Le stelle di Dante. Orientamenti per i contemporanei, pref. Ferdinando Raffaele, D’Ettoris editori, Crotone 2025, p. 144-146
[18] entro v’è l’alta mente u’ sì profondo / saver fu messo, che, se ‘l vero è vero /a veder tanto non surse il secondo (Par., c. X, vv. 112-114)
[19] É. Gilson, La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, presentazione a cura di M. Del Pra, Sansoni, Firenze 2004, pp.672-681.
[20] Questi onde a me ritorna il tuo riguardo, / è ‘l lume d’uno spirto che ‘n pensieri / gravi a morir li parve venir tardo: /essa è la luce etterna di Sigieri, / che, leggendo nel Vico de li Strami, / silogizzò invidiosi veri. (Par., c. X, vv. 133-138).
[21] É. Gilson, Dante e la filosofia, cit., p. 246
[22] Cfr. Pierre Mandonnet, Dante le Théologien. Introduction à l’intelligence de la vie, des oeuvres et de l’art de Dante Alighieri, Desclée de Brouwer, Parigi 1935; Idem, Dante théologien, in Revue des Jeunes. Organe de pensée catholique et française, d’information et d’action, anno XI, n. 10, 25-5-1921, pp. 369-395; Idem, Theologus Dantes, in Bulletin du Comité catholique franςais pour la célébration du VIᵉ centenaire de la mort de Dante, n. 5, gennaio 1922, pp. 395-527.
[23] É. Gilson, Dante e la filosofia, cit., p. 253.




