Ildegarda di Bingen “Dottore della Chiesa” e “Badessa del mondo” – di Maria Nivea Zagarella

Cosa ha da dire una monaca benedettina del XII secolo alla società dell’intelligenza artificiale avanzata, una società sempre più distante dal senso della trascendenza, travolta in una immanenza depauperata di valori, ipertrofica di tecnologie anche micidiali, segnata da una umanità che sembra avere smarrito se stessa fra carneficine di guerra, accecamenti da tycoon e disorientamento arreso dei più? Può -forse- utilmente aprire uno spiraglio di provocatori interrogativi sui nostri “limiti” di creature.                                                                                                                 

Della spiritualità e eccezionale tempra umana di Ildegarda di Bingen (1098-1179) racconta, nel libro Ildegarda di Bingen - Maestra di sapienza nel suo tempo e oggi, Michela Pereira, già ordinaria di Storia della filosofia medievale all’Università di Siena. La Pereira ne ripercorre le vicende dall’infanzia alla morte alla sua riscoperta, sull’onda del femminismo degli anni ’70, come teologa, musicista/poeta, naturalista/medico, fino alla canonizzazione nel 2012, con il titolo di Dottore della Chiesa accanto a Teresa d’Avila, Caterina da Siena, Teresa di Lisieux. Un efficace sintetico ritratto della “donna” e “badessa” Ildegarda, mater et magistra delle novizie di Disibodenberg e nel monastero di Rupertsberg da lei fondato (1150) con quello di Eibingen (1165), emerge da una lettera del 1177 del monaco Ghiberto di Gembloux che la descrive, sebbene ottantenne e malata, possente nell’esercizio delle virtù… Ha -aggiunge Ghiberto- la gravità dell’umile e nella sua carità provvede a tutto. E evidenzia il profondo legame tra la mater e le “figlie” (è difficile decidere se la madre superi nello zelo le figlie o le figlie la madre) e l’autodisciplina di queste, dedite nel riposo festivo alla lettura sacra e all’apprendimento dei canti e nei giorni feriali attivissime nei vari laboratori, fra cui lo scriptorium dove copiavano i libri, laboratori -precisa- che avevano tutti l’acqua corrente, in un monastero con edifici non grandi ma confortevoli e dignitosi [con] abbastanza risorse per comprare cibo e vestiti per le 50 sorelle. Che Ildegarda era attenta alla vita materiale e al bene spirituale delle consorelle, e vigile nella giustizia, risulta pure dalla lettera da lei scritta in prossimità della morte sia per ricordare alle monache il documento scritto con cui aveva ottenuto per loro, dall’abate del monastero di Disibodenberg da cui dipendevano, la libertà di godere della loro abitazione e dei loro beni a Rupertsberg (o sarebbero stati i monaci disgutosi ladroni), sia per raccomandare ad esse la reciproca carità senza discordie per essere luce splendidissima insieme agli angeli per la benignità… e soldati fortissimi nella casa di Dio. Alla giustizia di Dio, bellatrix (guerriera) contro l’ingiustizia, si appellerà pure, fra minacce e ammonimenti, nell’ultimo anno di vita nella lettera inviata ai prelati di Magonza che avevano ingiustamente interdetto a lei e alle monache l’eucarestia e il canto sotto la falsa accusa di avere sepolto nel loro cimitero uno scomunicato. Era morto quello -replica lei- confessato e comunicato e loro non lo avevano riesumato e scacciato per non recare offesa, come donne inferocite, ai sacramenti di Cristo.

Dalla ricostruzione della Pereira si desume che Ildegarda, guidata dalle sue divine “visioni” (che afferma di avere avuto sin dall’età di 5 anni), seppe unire vita contemplativa e vita attiva. L’immersione devota e fedele nella trascendenza, resa possibile dalla “sua” fede e dalla “sua” cultura, radicata nella Sacra Scrittura e nella Patristica, soprattutto agostiniana ma aperta anche alle più nuove conoscenze filosofiche e scientifiche dei suoi tempi, nutriva la “sua” ragione per le “battaglie” della vita, e la lettura attenta e critica della realtà e della storia la spingeva a sua volta a “interrogare” la trascendenza e “intuire” (cercare/trovare) nella sua interiorità illuminata dalla Rivelazione divina i percorsi di salvezza/felicità. Le “visioni”, per le quali ebbe fama e autorevolezza di profetessa (dono profetico riconosciutole ufficialmente sin da 1147 dai prelati di Magonza e da papa Eugenio III, per cui poteva predicare pubblicamente e non solo nei monasteri), non la portavano all’estasi, alla ”perdita di sé”. Erano -scrive la stessa Ildegarda- visioni ricevute da sveglia, con la mente sgombra e cauta, attraverso gli occhi e le orecchie dell’uomo interiore, in luoghi aperti... e l’immediatezza di quel vedere-udire-capire immagini, voce divina che spiega, e celesti melodie che lei traduce in parole, è sì una fiamma ardente che le afferra il petto e l’anima, ma fiamma che non brucia, riscalda  (appaga cioè quietamente ragione e cuore) come il sole riscalda ciò su cui posa i suoi raggi. Altrove l’intuizione/ispirazione divina è paragonata a gocce di pioggia soave. Lei capisce bene che le visioni negli anni sono diventate sempre più potenti coerentemente con la sua evoluzione intellettuale e spirituale (ti sono state mostrate -dice la voce dal cielo- alcune come latte liquido, altre come cibo dolce e leggero, altre ancora come cibo solido e perfetto), visioni il cui contenuto la vox trascendente e la soggettiva pressione interiore le impongono di “dire”, “raccontare”, riportandone fedelmente le meraviglie, il senso profondo, e Ildegarda confessa a Bernardo di Chiaravalle, cui chiede consiglio nel timore -quale “donna” in quella società patriarcale- di dire, e nell’incertezza di sbagliare, che talvolta questa visione mi fa ammalare poiché non ne parlo: devo mettermi a letto e non riesco ad alzarmi. Sente insomma nel suo umile ardore spirituale e acuta capacità di conoscenza intellettuale di avere una missione salvifica da compiere (ora la fede cattolica vacilla fra le genti, il vangelo zoppica”…) in quegli anni attraversati dalla lunga lotta delle investiture (1059-1122), dai contrasti tra Federico Barbarossa e il Papato (con gli scismi conseguenti all’elezione imperiale degli antipapa Vittore IV prima, e Pasquale III dopo) e dalla diffusione, dal 1140 circa, dell’eresia catara nelle Fiandre e nella Renania. 

Allineata con la riforma ecclesiastica voluta da Gregorio VII e proseguita da Bernardo di Chiaravalle, Ildegarda porta, da “badessa del mondo” appunto, nella vita culturale e politica del suo tempo tutta la sua carica polemica, etica, teologica, “visionaria” e di sapiente attenzione alla psicologia dei singoli, attraverso le Epistole, rivolte sia ai “potenti” laici e ecclesiastici, sia a semplici religiosi e religiose o a persone comuni; attraverso i viaggi di predicazione effettuati fra il 1158 e il 1171 lungo il Meno, il Reno, nella Renania-Lotaringia, in Svevia; attraverso i brani più apocalittici delle sue tre opere profetiche (Scivias, Liber vite meritorum, Liber divinorum operum) che si inseriscono nel filone medievale del millenarismo e della letteratura sull’Anticristo, e che -informa la Pereira- estrapolati e uniti alle lettere ai prelati di Treviri del 1160/61 e a quelli di Magonza e di Colonia del 1163 dal monaco Gebenone di Eberbach nella sua compilazione dal titolo Speculum futurorum temporum (1217-1220) più contribuirono a diffondere in Europa la fama della prophetissa Teutonica. In questa linea di impegno politico contro i mali della società cristiana e della Chiesa (simonia, corruzione morale…) rientrano fra l’altro la lettera rivolta a papa Anastasio IV (1153-1154) accusato di trascurare la figlia del re, la giustizia, l’amata dall’Altissimo che ti era stata affidata… di non sradicare il male… [coloro cioè] che amano il denaro mortifero… di incoraggiarlo col silenzio negli uomini corrotti… e quella a Werner di Kircheim del 1170, dove la Chiesa bisognosa di riforma è rappresentata quale una bellissima donna col volto coperto di polvere e la veste strappata sul fianco destro. Colpevoli del degrado sono i sacerdoti che la contaminano arricchendosi nella loro avarizia col passare da una prebenda all’altra, da un incarico a uno più alto, e la simonia li protegge, sacerdoti che non compiono le opere buone praticando l’astinenza… né l’elemosina… nè le altre azioni giuste da cui Dio è onorato… Quanto all’aspetto più specificamente dottrinale e teologico, se facciamo riferimento a ciò che scriveva J. Le Goff in L’uomo medievale (1991) circa le due diverse concezioni religiose dell’uomo, quella “pessimistica” che lo vedeva debole, vizioso, umiliato davanti a Dio… più diffusa nell’Alto Medioevo dal IV al X secolo ma ancora presente nei secoli XI e XII, e l’altra invece “ottimistica“, quale riflesso dell’immagine divina capace di continuare sulla terra la creazione e di salvarsi, concezione che prevale dai secoli XII e XIII in poi, Ildegarda è fra  gli intellettuali che avviano questa seconda visione e si può accostare ai mistici parigini Ugo e Riccardo di San Vittore creatori dell’ ”estetica dell’invisibile” (le forme visibili cioè ci rivelano i simulacri della Bellezza invisibile) e a quello che sarà poi un aspetto della spiritualità di San Francesco: il creato e l’uomo immagini viventi di Dio. La badessa sviluppa le sue idee in contrasto con il dualismo di ascendenza manichea dei Catari (cinque dei quali saranno bruciati a Colonia nel 1163), che -sottolinea la Pereira-  negavano l’Antico Testamento quali libri sacri, i sacramenti del battesimo e dell’eucarestia, l’incarnazione di Cristo e, come i Bogomili e i Pauliciani (anche se c’è qualche differenza fra i tre movimenti), leggevano la creazione come il risultato della lotta fra il principio del Bene e il principio del Male, e la materia e i corpi quale opera di quest’ultimo. Aggiungiamo che se l’eresia catara aveva anche un risvolto sociale nei suoi attacchi ai grandi feudatari, al nuovo ceto borghese, agli ecclesiastici simoniaci e corrotti, alla Chiesa gerarchica ricca e politicamente potente, identificati tutti con il Male, il loro radicalismo fortemente spiritualistico li portava però a rifiutare in blocco il mondo terreno, qualsiasi tipo di organizzazione sociale, la vita stessa. Ildegarda invece ha una visione positiva del creato e delle creature umane composte di anima e corpo. Nello Scivias (il cui titolo significa “Apprendi le vie”), scritto nel 1141/1151e strutturato in tre libri e 26 visioni, scrive che il corpo è una protezione che gli angeli non hanno. Lucifero -afferma- si ribellò a Dio perché nella sua luminosità tutta spirituale voleva “risplendere” come Dio, “duplicarlo”, perciò Dio protesse l’uomo con il “corpo” tratto dal fango vilissimo  affinché non provasse a innalzarsi per essere come Dio. Nel Liber divinorun operum (1163/1173), affinando il suo pensiero aggiunge che se l’angelo celebra Dio senza le opere del corpo, l’essere umano invece può celebrarlo anche con quelle perché è anima e corpo in un essere unico  (unica opera in due nature ribadirà costantemente), e nel Liber vite meritorum (1158/1163) sottolinea che l’essere umano è la pienezza dell’opera di Dio (plenum opus Dei) suggellata dall’Incarnazione di Cristo che fa dell’umanità un oggetto di ammirazione pure per gli angeli. La badessa, anticipando la formula di Pico della Mirandola, ritiene l’homo un “miracolo di Dio”, fatto a sua immagine e somiglianza, una creatura che in sé riassume tutta la creazione (l’aria è la sua voce, l’acqua le sue vene, la terra le sue ossa, il fuoco la sua razionalità), e deve agire nel mondo per ricondurlo alla originaria condizione di perfezione/beatitudine prima della cacciata dal paradiso terrestre per il peccato, che infranse l’armonia unitaria di anima e corpo, scatenandone i reciproci conflitti. Nella proiezione ideale ildegardiana -evidenzia la Pereira- il destino dell’umanità è quello di ritrovarsi davanti a Dio come “il decimo coro” a completamento dei 9 cori angelici, e a compensazione numerica finale della turba innumerevole di scintille (gli angeli ribelli che seguirono Lucifero) che precipitando nell’abisso si spensero come neri tizzoni, donde le continue insidie di Satana, per rivalsa contro Dio, ai danni dell’essere umano fino alla fine dei tempi, quando sarà definitivamente sconfitto.

Il Liber vite meritorum, dove si affrontano 35 Virtù e 35 Vizi, esemplificando la lotta fra il Bene e il Male nel cuore dell’uomo, fra i quali ogni individuo deve liberamente scegliere per meritare il premio o il castigo (Ildegarda è fra i primi pensatori a ipotizzare il Purgatorio), è costituito da una sola visione (divisa in 6 parti che si rivelano progressivamente), nella quale campeggia la figura simbolica di un uomo gigantesco, l’Anthropos, che nella parte finale si rivela a un tempo come l’uomo e Cristo stesso, a significare che l’essere umano era già prefigurato nel Verbo di Dio. Nella seconda visione del Liber divinorum operum torna infatti l’Anthropos, asessuato, come asse verticale della “ruota” del cosmo che prende forma dentro la Divinità prima degli eoni e del tempo, riportandoci al momento della Creazione, opera dell’unico Dio in tre persone, Sapienza creatrice che -canta poeticamente Ildegarda- circonda dall’esterno con le tre ali l’intera creazione. Cristo, Verbo e Sapienza, è “principio” della creazione e suo “vertice” nell’Incarnazione. Leggiamo perciò nel prologo ildegardiano al Vangelo di San Giovanni che: Il Verbo che era sin dall’inizio e prima delle creature e che sarà senza fine dopo di esse, ordinò a tutte le creature di venire all’essere e fece in esse la sua opera a somiglianza del fabbro che fa sprizzare scintille col suo lavoro, perché quel che prima di tutti i secoli era nella sua predestinazione ora si manifestava in forma visibile. Perciò l’essere umano è opera di Dio insieme a tutta la creazione. E’ l’operaio della divinità…”. Concetto fondamentale questo per Ildegarda che precisa che: Fin dall’eternità il volere di Dio fu che l’opera sua, cioè l’uomo fosse fatta; e quando ebbe compiuto questa sua opera le affidò tutte le creature, perché facesse le sue opere con esse, come Dio stesso aveva fatta la sua opera, cioè l’uomo” (Liber divinorum operum), e nella Physica (una delle due parti del Liber subtilitatum diversarum naturarum creaturarum, 1151/1158) riflette che dalla terra fu tratta una terra diversa: l’essere umano, e che tutti gli elementi erano al suo servizio, e collaboravano con lui… e lui con loro. Essere operarii Dei nel mondo significa -per la badessa- che gli esseri umani hanno il compito di collaborare all’opera creatrice di Dio, e proseguirla di epoca in epoca, al ritmo delle stagioni, di concerto con tutte le altre creature, che Dio ha messo al servizio dell’uomo, perché si sostentasse e si nutrisse, ma l’uomo deve servirsene secondo discretio, cioè “con misura e discernimento” (ammonimenti fondamentali della regola benedettina). Dio odia le gozzoviglie -scrive ancora nella Physica- ma non approva nemmeno l’astinenza irrazionale… Tutte le virtù devono stare sotto la discrezione… ed essa deve governarle in modo che né per l’approvazione degli altri, né per la propria superbia la mente salga più in alto di quanto può sopportare e neppure cada, nel compiere i ripetitivi doveri del mondo, più in basso di quanto stabilisca la norma data da Dio. L’originaria dignità e sacralità di tutto il creato (Io vita di fuoco della sostanza divina -dice lo Spirito- fiammeggio sulla bellezza dei campi, riluco nelle acque, ardo nel sole nella luna nelle stelle, e col vento che è fatto d’aria suscito in vita tutte le cose vivificandole con la vita invisibile che tutto sostiene) e dell’essere umano (E Dio fece l’essere umano formandolo a sua immagine e somiglianza perché stabilì che il suo corpo [“protezione” e “strumento”, come già visto] sarebbe stato la veste della divinità) -dignità e sacralità illuminanti anche e soprattutto per il nostro oggi ipertecnologico- risultano pure da altri due importanti corollari della sua visione teologico-dottrinale, e la Pereira, con moderna ottica femminista, li rileva opportunamente.

 Poiché l’Incarnazione è il punto chiave dell’unificazione fra creazione e storia, fra Dio e gli uomini, ed essa è avvenuta nel corpo di Maria, donna-madre di Dio (in te il padre diede al Verbo l’umana forma) Maria è cantata da Ildegarda, in O splendidissima gemma, come quella materia lucente/ da cui il Verbo stesso suscitò tutte le virtù/ come dalla prima materia/ fece emergere tutte le creature. C’è dunque una purezza/perfezione originaria dei corpi (Maria prima materia incorrotta) adombrata anche in Eva paragonata prima del peccato/trasgressione alla sfera purissima dell’etere (la prima madre del genere umano era stata fatta simile all’etere… integra e incorrotta aveva dentro di sé il genere umano, perché a lei era stato detto: crescete e moltiplicatevi). Maria dunque porta a compimento ciò che Eva doveva essere e entrambe sono -dice la Pereira, citando l’americana Barbara Newman- nella loro opposta polarità l’archetipo della foeminea forma. In entrambe la funzione materna, che non è “prescrizione”, “anatomia come destino” secondo certi polemici slogan femministi, -puntualizza ancora la Pereira- acquista significato trascendente e si rivela potenza cosmica che “canalizza“ nel mondo la forza creatrice di Dio. In Splendidissma gemma nel grembo di Maria si è incarnato il Verbo in cui il Padre creò la prima materia del mondo in cui Eva portò il disordine e nel Liber divinorum operum leggiamo che alle origini, mancando all’uomo un aiuto che fosse simile a lui…[Dio] gli diede questo aiuto nel corpo speculare della donna (speculativa forma mulieris) in cui era contenuto, invisibile, tutto il genere umano che sarebbe stato prodotto nell’energia della forza di Dio (sic!), come il primo uomo era stato fatto nell’energia della sua forza, e ancora, nel Cause et Cure (l’altra parte del Liber subtilitatum), troviamo che quando ormai il parto si avvicina, il vaso in cui è chiuso il bambino si apre e la forza dell’eternità (sic!), che trasse Eva dal fianco di Adamo, d’improvviso accorre e le è accanto e rovescia ogni angolo del piccolo corpo della donna. Maschio e femmina, in quanto complementari, sono dunque chiamati a compiere “insieme” le opere di Dio nel mondo; inoltre per Ildegarda la “coppia umana” è figura della natura divina e umana del Verbo incarnato, perché il maschio rappresenta la divinità, la femmina l’umanità del Figlio di Dio, l’umanità di Cristo! Ne conseguono -concludendo con la Pereira, che guarda anche al dibattito odierno sui generi, e integrando-: la valorizzazione della differenza tra i sessi senza gerarchizzazioni; l’assurdità di una dominanza sul mondo della “mente maschile” autoconsideratasi nei secoli sola “imago Dei”; la consapevolezza che siamo creature “finite” radicate nei corpi e nella terra; che l’essere umano (l’homo/umanità) nella sua integralità e interezza è dualità di corpo e mente (con tutte le differenze dei singoli che essa comporta) oltre che dualità di corpo sessuato; che il nostro “fare” non è separabile dalla realtà naturale e storica di cui “siamo” parte, donde ogni dualità/alterità (io/l’altro, uomo/donna, uomo/Natura, corpo/anima…) non è divisione/opposizione ma “implicazione reciproca”.

La stessa visione “integrata” emerge dagli scritti scientifici e dalle opere musicali di Ildegarda. La badessa aveva vaste conoscenze naturalistiche e esperienza delle più aggiornate fonti mediche della sua epoca (i testi della tradizione galenica araba), anche se leggeva le malattie come una delle conseguenze della cacciata dal paradiso terreste, che spezzata l’armonia dell’opera in due nature, aveva reso fragile il corpo, esposto agli attacchi degli elementi e di Satana. I nove libri della Physica (su erbe, alberi, pietre, metalli, pesci, gli elementi, gli uccelli, i quadrupedi, i rettili) sono una esposizione del modo sottile con cui ogni creatura è al servizio dell’essere umano, riuscendogli utile come cibo e nelle malattie. Principio fondamentale per lei è che un corpo sano, equilibrato, correttamente alimentato ha minori difficoltà a restare in armonia con l’anima. Anche l’alimentazione, i farmaci, le terapie, come gli ammaestramenti teologici e morali, devono per Ildegarda riportare l’umanità all’originaria condizione di integrità/perfezione/felicità dell’avvio della creazione, ed è questo aspetto della sua medicina, che va oltre il semplice recupero fisiologico del corpo, guardando invece anche all’emotività, all’ambiente fisico, allo stile di vita, che ha attirato sulla sua opera e sulle sue cure -osserva la Pereira- l’attenzione di naturopati e erboristi. Quanto alla sua musica e ai suoi canti, oggi abbondantemente presenti sul mercato discografico e in rete, la badessa riconduceva anch’essi al suo bisogno di ritrovare l’unità armoniosa di anima e corpo. Con la lettera del 1179 ai prelati di Magonza, citata all’inizio, Ildegarda gli fa ritrattare il divieto imposto a lei e alle sue monache di cantare, affermando fra l’altro che l’essere umano ha cercato di riottenere (componendo salmi e inni accompagnati da strumenti musicali diversi) la voce dello Spirito vivente che Adamo perse a causa della disobbedienzaQuando ancora era innocente nella sua voce simile a quella degli angeli c’era il suono di ogni armonia e la dolcezza dell’arte musicale tutta, cioè la voce di Adamo rispecchiava il suono primigenio del Verbo, e nel canto Ave generosa la badessa sintetizza efficacemente il suo concetto cantando che nel ventre di Maria nell’incarnazione risuonò l’intera sinfonia celeste. La musica, accordando corpo e anima attraverso la voce, opera per Ildegarda come “presenza” del Verbo e trasformativa esperienza interiore. Spiega infatti nello Scivias che l’armonia celeste esprime la divinità e la parola l’umanità del Figlio di Dio, perciò lei delle sue “umane” parole nei canti della Symphonia armonie celestium revelationum (1151-1158) ha rivestito le melodie celesti, che udiva nelle “visioni”, per annunciare (sic!) e lodare Dio…

Una esperienza di vita e di pensiero quella di Ildegarda all’incrocio costante e appagante -come si vede-, data la profonda mentalità religiosa dei suoi tempi, tra immanenza e trascendenza, dimensioni invece drammaticamente divergenti oggi nelle generazioni contemporanee nutrite di ben altri e opposti orientamenti culturali. 

 

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