INQUIETUDINI DEL VIVERE TERRENO E TENSIONE SALVIFICA nell'ultima raccolta di versi di Tommaso Romano “L'airone celeste”

INQUIETUDINI DEL VIVERE TERRENO E TENSIONE SALVIFICA

nell'ultima raccolta di versi di Tommaso Romano “L'airone celeste”

 

“L'airone celeste” è la metafora del volo. E il “volo” stesso è ancora metafora dell'aspirazione dell'uomo ad elevarsi, a trascendere se stesso e la propria natura verso ciò che sta oltre e lo sovrasta.

La dimensione del tempo che limita e incombe su di noi come una gabbia nella quale siamo “prigionieri” rappresenta tutt'intera la condizione umana, la nostra terrestrità, inscindibilmente ancorata ad essa.

La temporalità è infatti ciò che più propriamente e intimamente connota l'esistenza, soprattutto nella consapevolezza umana di questo limite e condizione che ci è imposta.

L'Oltre è lo sconfinamento, l'andare al di là di noi stessi, la fine della nostra finitezza. Andare verso di esso è abbandonarsi al volo.

Se tutto ciò che esiste accade oltre che in un luogo, in un tempo, è perché la nostra realtà è la patria di ciò che perennemente diviene e che, attraverso il perpetuo mutare continua la divina originaria Creazione, e rende Dio immanente in noi e nella nostra realtà.

L'incedere del tempo e il peso che esso porta in sé - il suo angoscioso gravare - diviene interamente il simbolo della condizione umana.

Possiamo cogliere il senso di questo “gravare” nell'intera raccolta di Tommaso Romano. Pervade interamente la sostanza dei versi e ne diviene elemento connotativo. Con esso, nella sua intima essenza, vive la dimensione dell'Attesa che è sospensione, inerzia, negatività, vuoto. Il tempo reca dunque con sé dinamiche di vita e di morte. È creatore e distruttore, dal momento che noi siamo il tempo, il nostro tempo, il tempo che ci è dato. Infatti esso non ha nulla di oggettivo anche se abbiamo orologi per misurarlo.

Il tempo è solo uno iato tra una nascita e una morte: è il mistero del divenire, ed è perciò legato alla vita, a tutto ciò che scorre e diviene.

“Ciò che resta/ va vissuto senza dilapidare/ bruciando/ al lume del mattino/ ancora senz'alba/ la notte che si consuma veloce/ l'insonne attesa/ il filo da riannodare/ ai sogni che cercano parole/ nel tempo di Eraclito/ rapito, liquido, impalpabile. (...)” In questi versi è il peso dell'incessante scorrere eracliteo che con la sua rapina, incessantemente, toglie e concede vita, un panta rei che impone l'urgere, condensato nell'attesa - di nuova vita che venga a sostituire la morte che incalza dentro e fuori di noi, in questo scorrere che è avvicendarsi delle due polarità.

Ed è qui che subentra, all'interno della nostra temporalità, l'idea e il sentimento del Kairos, espressamente citato o alluso nei versi del poeta. Dimensione che si lega a un destino o comunque a un culmine, a un'apice, a una vetta da raggiungere, decisiva ed emblematica per la nostra esistenza. È “l'evento che redime”, l'occasione che verrebbe a coronare gli sforzi di una vita, investendola di senso.

Infatti, di per sé la vita non avrebbe senso, sarebbe vuota e spoglia se, attraverso un atto emblematico, non la vestissimo del fulgido bagliore che dà senso alla nostra individualità e la santifica nella sua irripetibile identità.

Così il tempo è ciò che circoscrive la nostra esistenza, intagliandola forse nel piano dell'Eterno, facendone la tessera di un mosaico che appartiene al Cosmo, così come ci suggerisce lo stesso poeta nella sua visione di un Mosaicosmo che ricomponga il frammento in Unità, riconsegnando l'uomo alla sua divinità, a quella Patria lontana che gli fu tolta.

Ma nella condizione nella quale l'uomo si trova a vivere, il tempo sta a indicare il suo limite, la sua finitezza. “Migranti/ del destino/ senza razza/ né speranze redimenti/ in esilio,/ profughi senza rifugio/ apolidi/ in una stanza,/ senza viaggio/ e senza sbarco e promesse/ migranti dello Spirito/ senza richiedere accoglienza.” Così trova immagine la condizione umana assoggettata al suo limite, ingabbiata in questa prigione, esule e anelante al viaggio che ricondurrà lo spirito alla destinazione agognata. Ecco allora l'urgenza di scardinare, di evadere la gabbia che ci tiene prigionieri e di tentare il Volo, perché non ci resti e non ci vinca “...tra cipressi e pietre/ solitario/il rumore del nulla/ che al nulla chiama.”

Questa prospettiva origina, dunque, dall'insopprimibile bisogno dell'uomo di varcare i propri confini, la contingenza, verso la visione alta, paradisiaca dell'Essere. L'airone celeste, infatti, appartiene ai cieli, e racchiude in sé la pregnanza del più alto dei desideri umani.

Ed è la poesia stessa, il mezzo privilegiato, nell'uomo, di entrare in connubio con la Dimensione Altra, col divino. La dimensione che, fuori dalla contingenza e dal perpetuarsi infinito di vita e morte che è il divenire, finalmente schiude all'Eternità.

Perché, pur nella consapevolezza del suo limite, l'uomo tende sempre, direi costituzionalmente, a sconfinare da sé, dalla sua finitezza, e finitezza del suo mondo. E questo, proprio perché con dolore avverte che, in se stesso, qualcosa di essenziale gli manca: qualcosa che è il suo stesso fondamento.

Altro termine che frequentemente ricorre in quest'opera è infatti, quello di Assenza che sovente si lega con altri semanticamente affini, creando aree di significato ampie, composite che richiamano alla mente e ai sensi impressioni e idee di vuoto e squallore. A volte la parola Assenza è talmente “gravida” di sé, da divenire presente, ed è presenza di un vuoto, di una mancanza che incombe.

Una delle caratteristiche più determinanti della struttura dell'esistenza, e quindi dell'uomo, è – secondo Schopenhauer – l'essere dominati dalla Volontà, impulso che anima la vita tutta, noumeno che si concede al sollevarsi del “Velo di Maya”, e che porta al perenne mutamento di ogni cosa, assumendo nell'uomo la forma di un perenne desiderare. Proprio perché essere limitato e imperfetto, l'uomo manca sempre di qualcosa, e quindi desidera ciò che gli manca, ma il suo desiderare è infinito e mai definitivamente pago.

Solo l'Essere, in quanto Illimitato, Infinito, Perfetto, Eterno non tende a nulla, è il Motore immobile, secondo la definizione aristotelica. Ma il seme del divino è in noi, e così noi possiamo aspirare a varcare la Soglia, che è quel traguardo al quale siamo teleologicamente chiamati.

Ma il tendere allo sconfinamento è, per l'uomo, perenne tentativo e ricerca. Perché l'Essere cercato accenna sempre a se stesso, senza mai pienamente mostrarsi. Ci abbaglia un istante con la sua Luce per ritrarsi subito al di là della Soglia, nella dimensione trascendente, divina, in cui accenna a se stesso senza mai disvelarsi. Ed è questo ciò che chiamiamo Mistero, la Verità ultima alla quale agogniamo e che rimane sempre nascosta, non svelata, appunto perché il divenire, che è la nostra realtà, sia, a custodire la Sua Immanenza, l'esplicarsi del divino nel nostro mondo e in noi.

Il tendere all'acquisizione di questa - sempre presente - Assenza, di questa introvabile, innominabile Assenza, ovvero della cosa che radicalmente e dolorosamente ci manca e che costituisce il nostro stesso fondamento è, sostanzialmente, il desiderio e il tentativo di “ricucire lo strappo” e la dualità che si apre con l'Origine della stessa condizione umana.

La poesia di Tommaso Romano apre a questo desiderio e a questa ricerca, che è ricerca di quella Veritas che secondo Agostino abita in ciascuno di noi, nella nostra interiorità più profonda, nella nostra Anima.

Ma, certamente, ogni altra ricerca dell'uomo tende alla stessa meta. Tutte le nostre acquisizioni, i mondi che viaggiano in noi e che creano il movimento e la ricchezza dell'essere che è il divenire, ciò che avviene nel crogiolo della nostra anima, sempre in in fieri come l'intera realtà, è frutto della divinità latente in noi, immanente in noi, come possibilità, come scardinamento, appunto, di questi vincoli, dei confini che delimitano l'esistenza terrena.

Ogni nostro desiderare, la sete di conoscenza, di amore in noi, non altro sono che un tendere consapevole, o più spesso inconsapevole, al trascendimento della nostra condizione umana, del nostro limite che schiude le porte dell'Oltre, dell'Incondizionato e dell'Eterno.

La poesia è uno di questi tentativi, forse il più alto, il più arduo a cui l'uomo possa aspirare. Persegue questa Ricerca; ed è come se la particella divina, sepolta in noi, aspirasse alla sua nascita. Alla nascita nella luce della Verità, che altro non sarebbe che la riappropriazione di ciò che ci manca, della divinità che ci manca, ma che sentiamo appartenerci, e a cui ci rapportiamo come all'imperativo categorico di una radicale ineffabile promessa.

La ricerca che sta dentro alla Poesia è, innanzitutto, ricerca del Bello.

“L'altro tuo Nome/ è Infinita Bellezza/ da cui nacque in Amore/ a cui presto tornare/ superando ogni tempo e necessità ...”. Questi i versi di Tommaso Romano - incipit straordinario del testo “Infinita bellezza”- che nominano il Sacro, la cui evidenza è già nell'uso delle maiuscole per gli attributi sommi del divino “Bellezza” e “Amore”.

La Bellezza, infatti, che appartiene all'essenza stessa della Poesia, e dell'arte più in generale, ci appare intimamente connessa, sul versante etico, all'idea di Bene, derivante dall'Amore divino.

Anche gli antichi greci, peraltro, erano consapevoli di quest'intima relazione e della natura più propria dell'arte come sintesi dei due elementi che il concetto di Kalokagathia esprimeva.

Nell'opera di Tommaso Romano, la Bellezza è vagheggiata come sogno dell'anima e nostalgico paradiso cui volgere costantemente lo sguardo, in quanto matrice di quel Bene che è portatore di Luce e di Dio tra gli uomini. È una Bellezza amata, permeata di ricordi e lontani richiami, carezzata nel fondo dell'anima come parte viva e dolente, immortalata in scorci di paaesaggi che sono paesaggi d'anima.

Spesso, questa carezza che è nel ricordo, evoca toni e atmosfere crepuscolari, e visivamente richiama descrizioni gozzaniane, dove sentimenti dolci e amari si mescolano.

Gli oggetti si caricano, allora, della molteplice valenza della dimensione umana, della bellezza e grandezza della anima umana, e ne diventano il simbolo.

A volte, in questa minuziosa attenzione alle cose, pregne di risonanze e mistero, s'intravede, quella tensione perenne del Bello sentito come unico senso della vita... e di scorcio, ci si mostra l'ombra di Des Esseintes, personaggio paradigmatico della nostra epoca, in cui questa ricerca è spasmodica, e l'arte si configura come riscatto al nulla dell'esistenza, compendiandone l'intero valore - anche se, è da dire, che nel Nostro, vengono meno gli eccessi e le esasperazioni maniacali che hanno il loro culmine nella rappresentazione di quell'anima tormentata e torbida.

Il miracolo della poesia che è la più essenziale messa al mondo di noi stessi come anima, è quello di esprimere questo anelito più grande dell'uomo, questo suo sconfinato inappagato desiderio. Di esprimerlo con un linguaggio in grado di codificare ineffabili messaggi, come se il Mistero, a lungo indagato in noi, nelle profondità remote della nostra anima, trovasse esso stesso forma e alito vitale per vivere autonomamente nel mondo fuori di noi.

 

Rossella Cerniglia

 

 

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