Prefazione di Giuseppe Bagnasco a "Il tempo dei narcisi sui capelli" di Angelo Abbate (Ed. Thule)
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- Category: Scritture
- Creato: 06 Dicembre 2021
- Scritto da Redazione Culturelite
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Tanto grande e profondo è lo spirito che dà l’afflato al poeta. Eppure seguiteremo a leggere per carpire cosa c’è dentro quest’ultima silloge di Angelo Abbate giacché l’anima di un poeta la si scruta nel suo intimo sentire. Pertanto scandaglieremo, per usare un termine tanto caro al poeta, già Capitano di Vascello, per fare emergere quali sensibilità hanno “tracciato la rotta” alle restanti quaranta liriche. Ebbene, dei temi di fondo che fanno da cornice ai vari quadri tematici, tre sono quelli verso cui ci accingiamo a “salpare” da un immaginario Porto Palo di colombiana memoria. Un viaggio “esoterico”, come a cercare dentro, che ci condurrà ad esplorare nel Mare-Oceano della Poesia, un arcipelago formato da tre isole tematiche: quella ombrosa del pessimismo, quella del dolore lacerante e quella dove spicca la luce della speranza. Sono tutte e tre coperte da una lussureggiante natura prodiga di una variopinta proliferazione di fiori e che si stagliano sull’orizzonte del “mare del tempo”.
E una conferma di questo Eden l’abbiamo in “Affacciato alla finestra” dove il poeta, in mezzo a “i profumi di pumelia e gelsomino / …tra le nuvole di rosa /degli oleandri tra le siepi”, dà vela ai suoi pensieri che vagano “tra le onde di un mare che schiude la soglia dell’Infinito”. E qui c’è tutto il mondo fisico e spirituale di Angelo Abbate.
Il suo richiamo alla natura altro non è che la proiezione in terra dell’Infinito, ma dove non c’è la siepe leopardiana a delimitarlo, ma lo sguardo sognante di chi sa ammirarlo nei “colori morbidi del tramonto”. Ne emerge una pennellata di romanticismo come appare in “la sinfonia dell’acqua nei ruscelli” o in “grondava di colori la campagna / nell’aria spandeva i suoi profumi / …palpitava la vita…nelle cortecce rugose, cariche d’anni” o parimenti nella lirica “Un addio d’amore” o infine nel vedere “cadere l’ultima foglia / spossata ma leggera”.
E qui, in quest’ultimo verso, solo un animo sensibile, quale si annida nel poeta, è capace di accompagnare una foglia nel suo unico viaggio quando staccandosi dal suo ramo chiede alla terra il definitivo riposo. Una metafora della caducità della vita quando stanca si concede allo spirito per intraprendere quel viaggio racchiuso nella fede. Una fede pregna di una religiosità intensa ed emotivamente rilevante quale traspare, quasi una supplica, in “Una preghiera al Padre”.
Ma, come preannunciato, altri sono i temi giacenti nel perimetro delle tre isole e pertanto cominciamo con l’esplorare quella del pessimismo. Un pessimismo di cui già troviamo testimonianza in tante parole quali, per citarne alcune, in “la profondità di un abisso, …naufragato tra le onde, …il mare ha ingoiato la tua memoria.”, e non solo.
Tra “le trame sfilacciate del tempo” vi trova posto anche “il ventre muto del silenzio”. Un silenzio che pervade l’anima del poeta il quale, amareggiato nel constatare come oggi nulla sia più come prima, si sente costretto a “navigare sottocosta”. E ancora, intrise di pessimismo sono le liriche dedicate all’attuale pandemia e, nello specifico, ai vecchi abbandonati soli e senza conforto dentro le case di riposo e lì trovare, questo sì un dramma, quello eterno. Contigua all’isola del pessimismo c’è consequenziale propria quella del dolore contingente e temporale.
Un dolore appena lenito dal ricordare i morti che “continuano a vivere negli angoli / del cuore, negli anfratti della mente”. E c’è un verso che fa da tramite tra il dolore e il silenzio e che si identifica nell’attesa. “Nella ragnatela dell’attesa… il dolore tesse il silenzio”, scrive il poeta (v. “Questa primavera conta i morti”). Secondo noi un verso altamente simbolico e che nelle parole silenzio, attesa e dolore c’è l’approssimarsi dell’abbandono della vita. Un dolore ancora ben sintetizzato nel “volto di un bambino colorato di nero” che sta “là sul ponte di una nave che non trova approdo!” oppure nella lirica dedicata ai naufraghi quando il mare “mosso a pietà restituisce i corpi / perché non siano corrosi dal sale”, e pertanto alla Madre-Terra. Proseguendo la “navigazione”, ecco approdare all’ultima isola, quella della speranza.
“Nel fondali del cuore ara l’ancora della speranza” declama il poeta. Una speranza che è ancora un’attesa, un “tempo sospeso”, affinché “fiori di erica e di cisto” tornino a colorare la terra. E nella speranza sono racchiusi anche quei “crepitii d’alba (che) nutrono barlumi di luce”. Chiude i temi dispensati in questa silloge, la lirica “In questo tempo sospeso…spiragli d’infinito” e che negli ultimi due versi trova conferma tutto il mondo poetico del poeta: “e appeso con un filo alla volta dell’infinito / crogiolarmi nel mistero di una danza di stelle”.
Una parola, quest’ultima, che nel palcoscenico del Creato, richiama quella nell’ultimo verso della terza Cantica dell’Inferno: “E poi uscimmo a riveder le stelle”. Un richiamo, se vogliamo, quale omaggio doveroso, al Sommo Poeta nel settecentesimo anniversario della sua morte ma che noi intendiamo anche come un accostamento per la fede nel dopo-vita, presente nei due, sebbene non uguale per la percezione della grandezza di Dio. Infatti a quel tempo, quando vigeva ancora la concezione geocentrica, detta grandezza era racchiusa fin dove si spingeva l’occhio umano e cioè alla volta stellata. Un credo già presente nella religione dell’antico Egitto e infatti, per inciso, la volta nelle tombe dei faraoni non era interamente coperta di stelle? Una grandezza che il poeta bagherese però percepisce in una di più grande dimensione e che, grazie alle scoperte dei vari Keplero, Copernico e Galileo, vissuti tre secoli dopo Dante, il Nostro identifica nell’Infinito. Un infinito che nella semantica lessicale si identifica in ciò che non ha fine e pertanto eterno.
Un “eterno” richiamato peraltro anche dal Grande Recanatese nelle parole “e mi sovvien l’eterno”. Con ciò non vogliamo, con fare irriverente, accostare il Nostro all’Autore de “L’Infinito”, ma ne scorgiamo lo spirito che li accomuna, sebbene se ne discostino nella concezione della Natura, in quello come matrigna, nel nostro come esplosione dei suoi colori, lì fisica, qui spirituale. Al termine della nostra “esplorazione”, eccoci pervenire alle nostre considerazioni.
Anzitutto va detto che non ci troviamo davanti un sequel della silloge “Nel buio ricami di luce” editata due anni orsono. Infatti in quella prevale lo spirito critico dal carattere fortemente sociale ed esistenziale, in questa, a parte una inevitabile denuncia sulle devianze di una società “malata”, c’è l’abbinamento dell’esplosione dei colori della campagna insieme alla componete non secondaria dell’amore sia in senso stretto che in quello lato. E di seguito, una nota in particolare:
Nei testi a carattere sociale non c’è quella retorica che solitamente in questi temi sta sempre in agguato. Ad essa il Nostro nulla concede poiché su tutto domina il sincero apporto dei più puri sentimenti. E ancora. Tra le righe delle liriche non si avverte uno sciorinare di concetti, un esplicitare di saccenti sentenze, se non la comparsa di sparuti aforismi come “L’amore non tollera l’abbandono” o “L’intemperanza erige muri di solitudine”.
Semmai, si evince una opportuna aggettivazione e un sapiente uso di metafore inanellate a poetiche espressioni tali da consegnare al lettore la fattura di un poeta autentico e perfino, innovativo. I versi sciolti, dove è assente la pedante rima o l’assonanza, si declinano leggeri giacché connaturati alla naturalezza della buona verve dell’Autore. Propria quella che abbiamo evidenziato e che volutamente richiamiamo ne “Il tempo dei narcisi sui capelli”. Un’ode che, sebbene dedicata alla figlia Marina (né poteva chiamarla diversamente un Ufficiale superiore della Marina Militare), è indirizzata a quanti abbiano nel loro DNA quei sentimenti che ancora resistono ad un inquietante modernismo.
Per parte nostra, in metafora, li immaginiamo a bordo di una “caravella” ormeggiata al molo (della vita) con una cima agganciata alla bitta dei sentimenti e con un’ancora calata a scrutare i fondali della tradizione. Un binomio che costituisce quell’orizzonte a cui guarda Angelo Abbate. Al termine di queste considerazioni, un’ultima osservazione.
Nella lirica “Forse poesia”, che volutamente chiude la silloge, c’è una riflessione e una domanda che il poeta rivolge a sé stesso: Quale è la Musa che lo ha ispirato? È stata forse l’onda di un’emozione o il recepire un silente dolore? Inutile, concludiamo noi, indagare quale sorgente abbia dettato ciò che è stato scritto e pertanto non resta al poeta, come egli spera, che i suoi versi non vengano subissati “nelle maree dei giorni” o negli anfratti dell’oblio.
Per quel che ci riguarda, riteniamo la “navigazione” compiuta sul testo, una esplorazione molto prodiga di risposte perché vi abbiamo scorto valori e speranze, realtà e sogni insieme alla sensazione, rimasta nel nostro subconscio, di avervi intravisto una “grande bellezza”. È quella donata dall’Abbate nell’essere stato capace di fare riaffiorare la poesia, quella vera. Un bentornato quindi alla buona poesia nella “speranza” di intravedere quel “barlume di luce” per cui in un prossimo domani, anche noi potremo dire con orgoglio: “E poi uscimmo a riveder le stelle”. A finire, e a proposito della vera poesia, ci soccorre il pensiero di Parmenide di Elea (oggi Velia), un filosofo del V secolo a.C., laddove afferma: “L’essere è, il non-essere non è” e noi, parafrasandolo impudicamente, a conclusione possiamo affermare: “La poesia è, la non-poesia non è”.
E Angelo Abbate è, poesia.