“L’etica della forma nell’estetica di Valéry” di Giuseppe Modica
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- Creato: 16 Giugno 2018
- Scritto da Redazione Culturelite
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Nella sua lunga e inveterata tradizione la poesia è stata considerata come frutto di due fattori non sempre compresenti, anzi talvolta contrapposti: da un lato l’ispirazione e dall’altro l’esercizio, cui corrispondono rispettivamente il guizzo della genialità e la pazienza della disciplina, l’entusiasmo dell’improvvisazione e la fatica dell’elaborazione. I teorici della poesia come ispirazione si sentono posseduti da una forza demoniaca, una sorta di theia mania, per la quale l’aspetto operativo si riduce a mero artificio pronto a compromettere qualsiasi estatico rapimento; di contro, i teorici della poesia come esercizio si ritengono positivamente gravati da un compito rigoroso e lacerante, il solo in grado di garantire serietà e scrupolo all’enfasi esaltata e disordinata della pura vocazione. Accade così che ciascuna posizione veda nell’altra un approccio inadeguato e unilaterale, laddove, a ben riflettere, si tratta piuttosto di due aspetti egualmente indispensabili del processo creativo.
Uno fra i più acuti teorici d’una loro possibile osmosi è Paul Valéry, ultimo esponente del Simbolismo francese e figura intellettuale a tutto tondo del Novecento letterario europeo. L’originalità delle sue riflessioni è data dal fatto che egli rinviene l’essenza della poesia non già nel conchiuso equilibrio tra le sue due componenti, bensì in una ispirazione capace di acquistare vera dignità nell’esercizio preparatorio, giacché la riuscita dell’opera d’arte va ricercata nell’operosità che la sostanzia.
In effetti, l’importanza rivestita dal “lavoro” nella costruzione di una poesia è formulata da Valéry attraverso la concezione delle “regole”, intese come prescrizioni rigorose, come catene che il poeta stesso si dà per sfuggire alla natura caotica e dissipatrice dell’inventività istintiva e spontanea che, se lasciata a se stessa, rimane farcita di “sciocchezze, debolezze, inutilità, imbecillità, imperfezioni”. Le regole sono pertanto le “condizioni della costruzione, che è il passaggio dal disordine all’ordine”, ma con una precisazione: “Non mi spingerò sino a dire che tutto quanto ostacola l’uomo lo fortifica. So bene cosa voglia dire avere le scarpe troppo strette. Ma in poesia proprio scarpe troppo strette ci farebbero inventare danze nuovissime”. Sicché “è assai più facile che un’idea sia procurata da una rima piuttosto che trovare la rima a partire dall’idea”.
Alla luce di queste rilievi acquistano significato due connotazioni, quelle che Valéry ritiene come punti nevralgici dell’estetica del Poe: la dimensione e la purezza della poesia. A proposito della dimensione, Poe sostiene che vada calcolata “secondo un rapporto matematico” che la mantenga in un giusto equilibrio tra la “mania epica”, che ne esaspera la lunghezza, e la “mania epigrammatica” che ne enfatizza la brevità. In ogni caso la dimensione di una poesia deve essere “in ragione diretta dell’intensità dell’effetto voluto”. E poiché le eccitazioni dell’anima non possono essere sostenute a lungo, Valéry concorda con il poeta americano nel ritenere che in poesia è la brevità che va privilegiata.
A proposito della purezza della poesia, bisogna ricordare la critica che Poe muove alla “eresia del didattico”, cioè alla tendenza di individuare lo scopo della poesia nell’ammaestramento morale: non può esserci “opera più supremamente nobile [...] della poesia in sé e per sé, della poesia che sia poesia e niente più, della poesia scritta solamente per la poesia”, e cioè per il suo fine specifico qual è la bellezza, laddove il dovere morale è piuttostooggetto dell’austerità della prosa. Perciò la poesia va depurata da ogni contaminazione proveniente da elementi descrittivi enarrativi propri dello stile prosastico.
La produzione artistica è figlia, dunque, di una consapevole programmazione, anzi di una vera e propria “avventura della costruzione”, rispetto alla quale la mera genialità dell’ispirazione risulta del tutto inadeguata e decisamente fumosa se non si fonda sulla “resistenza alla facilità”. E se anche l’ispirazione sembra esplodere in pochi istanti, in realtà si tratta di una lenta maturazione interiore, nella quale la genialità non è un colpo di fulmine, ma l’istituzione di una “legge di continuità” fra i termini adoperati, al punto che la dispersione del molteplice può essere ricondotta a una totalità organica. Se infatti il molteplice viene identificato con una esposizione sensibile ai fenomeni del mondo, tocca comunque a ciascuno filtrare la varietà degli elementi passivamente recepiti con una selezione consapevole, mirante a cogliere tra essi un filo connettivo. In tal senso per Valéry “l’idea di composizione” resterà sempre “la più poetica delle idee”.
È l’incisivo proclama del primato della elaborazione rispetto allavoro finito. La forma diviene così l’elemento capace di esprimere il contenuto, tanto più individuabile quanto più capziosa è la ricerca delle strutture formali che lo sostengono: “Cerco –dice il poeta – una parola che sia femminile, di due sillabe, contenente una p o una f, piana, sinonimo di rottura o disgregazione, e non dotta né rara: sei condizioni, almeno!”. Certo, la tentazione di riscontrare in tale impostazione fattori puramente tecnici, responsabili di togliere respiro a ogni ispirazione, è assai forte; ma, a ben vedere, il rischio della compromissione della libertà nel processo creativo è scongiurato nell’atto stesso in cui Valéry evidenzia che le regole non sono meri legami coercitivi; lo sarebbero se s’imponessero estrinsecamente all’operosità, laddove, piuttosto che passivamente subite, le regole sono volute dal poeta e, come tali, sono espressione della sua libertà creatrice. Perciò, fra i tanti possibili criteri che permettono di distinguere un poeta da chi non lo è, Valéry individua quello che riguarda proprio le regole: “Poeta è colui a cui la difficoltà della sua arte fornisce idee, non è poeta colui a cui gliele sottrae”. E l’abilità del poeta – sottolinea sulla scorta di quanto sostenuto dal Poe – consiste precisamente nel mettere in pratica le qualità morali della pazienza, dell’attenzione e della concentrazione, ma celandone – e non esibendone – la fatica e lo sforzo (ars celandi artem).
Si profila in tal modo un’etica della forma in cui le virtù chiamate in causa non sono mere enunciazioni retoriche o appelli estetizzanti, ma punti di riferimento della volontà creatrice e suoi elementi imprescindibili di sostegno interno. La struttura di quest’etica è contenuta nel processo di perfezionamento – un autentico perficere – attraverso cui si giunge alla composizione finale dell’opera. Non a caso, il fare, per Valéry, è pur sempre un farsi, sicché il poeta è il prodotto costantemente attivo del suo far poesia. Da questo punto di vista il “fare” valéryano trova il suo sito ideale – e al tempo stesso realissimo – in un indissolubile nesso tra il poiein e il praxein. Affermare – com’egli fa – che “l’arte è azione” significa pertanto connotare il processo creativo come un compito indefesso e, per ciò stesso, come un habitusdeclinantesi non già nella forma dell’avere (habere), bensì nelle sembianze dell’essere, e cioè del “possedersi” (se habere) in undivenire che si rinnova irresistibilmente.
Ma proprio in forza di questa sua natura, siffatto percorso non può ritenersi mai del tutto concluso. E se la rilevanza dell’operazione sull’opera è tale per cui quel che ne emerge è la supremazia del tragitto sulla meta – sicché questo primato sembra condurre a esiti decisamente paradossali – ciò va riletto alla luce della natura dinamica della forma. Indubbiamente, se a sostanziare il lavoro finito è un’incessante laboriosità, la compiutezza appare deleteria rispetto a ciò che la sorregge, poiché per un verso si enfatizza la fase preparatoria come un eroico furore che mette capo a una sacralità inattingibile ma, per un altro verso, questa esasperazione mette in questione il momento fisiologicamente ultimativo –almeno negli auspici – del processo creativo. Eppure, chi sostiene che il percorso elaborativo sia secondario, in quanto estrinseco rispetto al compimento, perde di vista il fattore genetico, rischiando così di confinare l’opera nell’alveo di un’inerte immobilità, laddove il processo artistico – come ha osservato Dewey – possiede un carattere organico, tale per cui l’opera non è né una tappa conclusiva né un effetto trascendente di quel processo. Il fattore genetico, a sua volta, non è tuttavia riducibile all’intrinseca teleologia dell’opera, di cui rappresenta la storia, ovvero la successione temporale ma non l’essenza, la quale è invece espressa – secondo l’incisiva tesi di Pareyson – da una “perfezione dinamica” e cioè da un compimento che non si esaurisce in una forma asfittica e conchiusa, ma si affida all’inesauribile e insondabile infinità dell’opera stessa.
RIFERIMENTI
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