“La Sicilia e il Mediterraneo nella saggistica letteraria di Mario Inglese” di Maria Nivea Zagarella

La raccolta di saggi di Mario Inglese, Scrivere la Sicilia, si articola come un variegato “viaggio” attraverso opere di Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino, Andrea Camilleri, Simonetta Agnello Hornby, Giorgio Vasta, Nino De Vita, tutti autori a noi contemporanei, proponendo una vivace lettura dell’odierna “Sicilia letteraria” quale cuore “ancora pulsante” nel Mediterraneo, coerentemente in linea con il suo fecondo e glorioso passato storico-culturale. Se la frenesia quotidiana e i nuovi modelli economici e comportamentali ci rendono distratti e dimentichi, gli scrittori, o meglio, alcuni scrittori, grazie al loro ricco e complesso bagaglio umano e esperienziale, sanno motivatamente risvegliare la nostra “memoria”. E con i connaturali, non esigui, mezzi a loro disposizione, alias il personale laboratorio fantastico-creativo e linguistico espressivo, sanno coinvolgere e “riattivare”, più o meno durevolmente, coscienze e sensibilità dei lettori, quelli naturalmente più “disponibili”. Quanti oggi?

Nell’Introduzione al suo libro Mario Inglese precisa che “sei” dei “sette” Saggi presenti nel volume sono originariamente nati per gli annuali Convegni organizzati ad Erice dal Mediterranean Center for Intercultural Studies (MCIS) che auspica un Mediterraneo fucina di sinergie socio-economiche, geopolitiche e culturali, e perciò rispondenti i saggi, nelle loro tematiche di fondo, alla realtà storico-identitaria di una Sicilia quale avamposto, crocevia, coacervo di influenze culturali diverse, come è stata, ed “è” dalla più remota antichità fino alle attuali emergenze dell’immigrazione. Proiezioni nel futuro e problemi contemporanei dunque, in cui organicamente viene ad inserirsi anche il saggio inedito accolto nella silloge, dal titolo Giornalismo e letteratura - L’impegno civile di Camilleri, un autore che fra l’altro ha dedicato un suo articolo del 15 marzo 1998 su Repubblica -ricorda Mario Inglese- a una riedizione del testo, L’autrice dell’Odissea, dell’inglese Samuel Butler, per il quale a scrivere il poema, che con L’Iliade ci riporta agli albori della civiltà mediterranea e occidentale, sarebbe stata una donna di Trapani. Tutto il viaggio di Ulisse -annotava Camilleri nel ’98 citando Butler- acquisterebbe plausibilità geografica solo se si considerasse come un periplo della Sicilia. La “mano femminile” emergerebbe inoltre dal fatto che nel poema abbondano le descrizioni delle dolcezze familiari, della quotidiana vita femminile e l’esaltazione delle virtù domestiche. Nei singoli capitoli di Scrivere la Sicilia ognuno degli scrittori sopra citati viene visto da Mario Inglese all’interno del ricco dibattito critico che ne ha evidenziato caratteristiche, scelte stilistiche, finalità, e viene accompagnato negli sviluppi di talune opere che meglio evidenziano i suoi legami, anche psicologici, con il contesto locale di appartenenza e con la tradizione di tutta l’isola, nei suoi elementi storici, antropologici, artistico-letterari, oltre che con l’odierna situazione nazionale e sovranazionale.

La sintesi più salda e più disperata di passato e presente, carica tuttavia di una propositiva malinconia eroica nel grido/rivolta contro il degradato oggi, emerge dalle pagine di Vincenzo Consolo (L’olivo e l’olivastro, Le pietre di Pantalica, Di qua dal faro, Lo spasimo di Palermo). Le dense metafore critiche, opportunamente ricordate da Mario Inglese, quanto allo “sguardo” di Consolo come sguardo di archeologo, e quanto alla “sua” Sicilia come terra/palinsesto antropologico, culturale, fisico, rendono con molta efficacia l’accurato e appassionato “scavo stratigrafico” che Consolo ha attuato in tutte le sue opere della identità storica e culturale della “sua” amata-odiata isola, facendone emergere sia a livello di realismo di contenuti sia di polifonia del linguaggio, nonostante l’esasperata talora visionarietà onirica e l’insistito lirismo analogico e barocco, anzi più spesso grazie a tutto ciò, il contrasto stridente fra la perennità e grandezza dell’eredità culturale del passato e l’attuale “barbarie”, che ha reso invece la Sicilia un luogo di distruzioni e di violenza, la matrigna terra (non più Itaca salvifica) della giustizia negata (gli attentati mafiosi), della memoria cancellata, dell’intelligenza offuscata, della bellezza e della poesia oltraggiate, delle passioni incenerite. Un esilio esistenziale quello di Consolo senza approdo e “senza ritorno” nel generale degrado della “modernità occidentale” (la Sicilia come la Milano contaminata dalla diossina, dalle stragi, dal denaro, come l’Italia postfascista, come l’Europa deserta di ragione). Se tensione etico-civile e coscienza estetica paiono perfettamente equilibrarsi nella scrittura di Consolo, nell’autofiction di Gesualdo Bufalino il secondo elemento sembra talora proliferare autonomamente, per spontanea autogerminazione di parole e immagini, data la sterminata cultura dello scrittore di Comiso. Nel suo tardivo autobiografismo letterario (Diceria dell’untore, Argo il cieco ovvero I sogni della memoria, Calende greche) il racconto -scrive Mario Inglese- si tinge giocoforza di un alone di ricostruzione memoriale dove le rievocazioni di luoghi e momenti storici della terra di origine si fondono in una dimensione di sogno che assume i valori del simbolo e della metafora. Un miscuglio di realtà e invenzione dunque, che se restituisce le tante Sicilie secondo l’ottica di Bufalino (oltre quella greca e cristiana la Sicilia verde del carrubo, quella bianca delle saline, quella gialla dello zolfo, quella bionda del miele, quella purpurea della lava… una Sicilia “babba”… una “sperta”… una pigra, una frenetica, una che si estenua nel’angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale… ) e un nutrito repertorio antropologico e popolare di proverbi e modi di dire in dialetto siciliano, vede tuttavia un metaforico prevalere di teatralità, opulenza barocca, carnalità e contrasto di luce abbacinante e connotazioni mortuarie che ben si attagliano al disincanto esistenziale dello scrittore il quale -per sintetizzare velocemente e usare una pregnante definizione dello stesso Bufalino- sullo sfondo della comune universale nientitudine interroga gli eterni umanissimi temi della nascita, della morte, della malattia, del destino, dell’improbabile felicità: Io questo  barlume inetto e stupendo, questo truciolo di coscienza e particola infinitesima di spazio, questo inquilino pro tempore…

Con Andrea Camilleri i due interventi critici di Mario Inglese tornano sull’interculturalità e sulla inequivocabile “scelta” dell’impegno civile, perché attenzionano il primo, nel giallo Il cane di terracotta, del 1996, la leggenda cristiana e araba dei “sette dormienti nella caverna”, il secondo, il libro La Sicilia secondo Camilleri–Il Maestro in redazione (2021), che raccoglie un gruppo di trenta articoli richiesti a Camilleri dal giornale la Repubblica per l’edizione di Palermo, e da lui scritti dal 29 ottobre 1997 al 18 aprile del 1999. La leggenda dei sette dormienti che aiuta il commissario Montalbano a decifrare il “mistero“ del ritrovamento di una giovane coppia di innamorarti uccisi e nascosti nella grotta del Crasticeddru, consente al critico di ricostruire, entro quel mosaico culturale unico nel Mediterraneo che è appunto la Sicilia, i momenti della conquista e dominazione araba, iniziata nell’827 e che, conclusa la sua parabola, lasciò in eredità ai Normanni vincitori quei valori di tolleranza e sincretismo culturale che fecero del regno normanno -puntualizza Mario Inglese- una società ideale, quella in cui ogni cultura, ogni etnia vive nel rispetto di quella degli altri. Il critico si sofferma su due grandi arabisti siciliani, Michele Amari di Palermo, autore della monumentale Storia dei musulmani di Sicilia e Umberto Rizzitano, professore di lingua e letteratura araba all’Università di Palermo. Quest’ultimo ha probabilmente suggerito -dice- il cognome del personaggio cardine del mistero della grotta del Crasticeddru, Lillo Rizzitano, del quale anche il nome, Lillo, rimanda agli arabi perché diminutivo di Calogero, il santo eremita del V secolo di origini appunto arabe. Il fascino della leggenda, derivata da Camilleri dall’opera La gente della caverna del drammaturgo egiziano Taufik al- Hakim, sta nel gran numero delle varianti e delle lingue in cui è stata tramandata (greco latino siriaco arabo gallese lingue scandinave), segno del passaggio attraverso religioni e popoli diversi, e nel sincretismo culturale che esprime. La storia dei 7 giovani fatti cadere da Dio in un sonno profondo (quelli di Efeso per sfuggire alle persecuzioni di Decio, quelli arabi per non cedere alla corruzione della società) e risvegliatisi centinaia di anni dopo, mette in risalto valori e miti ampiamente condivisi quali: saggezza, purezza, tolleranza, amore, resurrezione, salvezza/immortalità, in contrapposizione a persecuzione corruzione morte. Valori -sottolinea il critico- che ha inteso recuperare e affermare Lillo (e con lui Montalbano/Camilleri deluso nell’oggi dalla pervicace iattanza della violenza criminale collusa con il potere politico) nel momento in cui ha nascosto e ricomposto nella grotta, entro un ordine mistico di oggetti-simbolo e di amore vincente e augurale rinascita, i due innamorati innocenti uccisi, entro il caos sociale della guerra del ’43, dal sicario armato dalla furia incestuosa del padre della ragazza. Una riconsacrazione/risarcimento dunque dal forte valore ideale contro ogni forma di “distruzione”! L’attenzione di Camilleri per le vicende storiche, politiche, economiche, sociali è confermata pure dagli articoli scritti per Repubblica, puntualmente analizzati da Mario Inglese. In essi Camilleri ora riflette sulle fonti del “suo” scrivere, che sono in genere  il “dato storico” o il fatto di cronaca e lo spunto giornalistico, e sullo strumento linguistico più adatto: per lui l’osmosi lingua–dialetto (il suo “vigatese”), per salvaguardare contemporaneamente il concetto della cosa e “il sostrato umorale”, profondo, di essa, e per salvarsi dal virus invasivo dei forestierismi e da quell’anodino -come annotava- diserbante essiccatore delle radici che è la parlata televisiva. Ora affronta i problemi della mafia (di oggi e di ieri, risalendo all’inchiesta Sonnino-Franchetti del 1876), della criminalità che non va confusa -diceva soprattutto ai milanesi- con il dramma dell’emigrazione e tanto meno contaminata con il pregiudizio del razzismo, ai danni degli extracomunitari onesti, ora ricostruisce la figura dello storico Francesco Renda, testimone della strage di Portella della Ginestra, o istituisce un parallelismo fra i carusi delle vecchie zolfare e l’odierno sfruttamento minorile in vari paesi del mondo, o commenta i molti suicidi per amore in Italia evidenziando la maggiore fragilità dei maschi nella criticità delle situazioni da affrontare. Un’ottica insomma costantemente civile, conclude il critico, riscontrabile anche nei suoi romanzi storici e nei gialli più invischiati nelle contraddizioni del nostro presente.

Quanto alla palermitana Simonetta Agnello Hornby, Mario Inglese afferma che la Sicilia tutta è il personaggio delle sue opere, e per le radici siciliane della scrittrice, e per la nostalgia indottale dalla sua condizione di espatriata, residente a Londra dal 1972. L’analisi critica si sofferma soprattutto sui romanzi La Mennulara (2002), La zia marchesa (20024), Boccamurata (2007), ma fa riferimento anche a Caffè amaro (2016) e a Punto pieno (2021), evidenziando in essi in evidente contrasto con i personaggi maschili, spesso rapaci violenti rozzi, talora anche ignoranti e inetti, la forza e la determinazione di quelli femminili: Rosalia, la mennulara fatta di ferro e di fuoco, Costanza, la zia marchesa, la zia Rachele comproprietaria del pastificio in Boccamurata, Maria protagonista di Caffè amaro, le Tre sagge nobildonne fondatrici del circolo di ricamo di Punto pieno. Mario Inglese vede ben inserita la Agnello Hornby, per i suoi personaggi sanguigni e a tutto tondo e per la sua terragna aderenza ai luoghi e alle cose, nella ricca tradizione narrativa di matrice verghiana e derobertiana con spunti anche della Maraini di Marianna Ucrìa, e passa in rassegna i temi caratteristici della scrittrice. La famiglia, con le sue complesse e pesanti dinamiche interne, la roba, la sensualità, non solo come rapporto erotico ma anche come sensuosità di cibi pure essi fattore identitario, e odori, sapori, colori…, l’incrocio inoltre fra la Grande Storia (dalla II metà dell’Ottocento fino ad oggi) e le “piccole storie” dei numerosi personaggi, l’attenzione/amore per il paesaggio siciliano (marino e agreste), per la città di Palermo, per la cultura popolare (proverbi e tradizioni come la festa dei morti, il teatro dei pupi). Tuttavia due sono soprattutto i “nuclei ideologici” fondanti della narrativa della Hornby, avvocato di professione e perciò anche dalla scrittura -dice Mario Inglese- dettagliata, veloce, fattuale: la denuncia delle ingiustizie sociali (vedi parole e atti delle protagoniste de La Mennulara, Caffè amaro, La zia marchesa) e per quanto riguarda l’attuale dibattuta condizione delle “donne” con annessa riappropriazione del proprio “corpo”, libertà e dignità (Pensare a se stesse: non era questo il diritto che veniva negato alle donne e che tante non osavano nemmeno concepire? Il ruolo delle donne era procreare, accudire, servire…) la circostanziata rappresentazione nei romanzi del lungo e travagliato processo di autocoscienza [da parte dei personaggi femminili] del proprio valore di donne e di esseri umani a tutto tondo, fino al conquistato appagamento delle proprie aspirazioni e all’approdo alla pienezza di sé.

La città di Palermo invece nella narrativa di Giorgio Vasta, fuori da ogni cliché letterario siciliano, fa da “campionatura” contemporanea per saggiare lo stato comportamentale e mentale dell’Italia di oggi, dagli anni Settanta in poi. Ne Il tempo materiale (2008) la Palermo dei moderni quartieri della media borghesia, anonimi e funzionali, del centro storico e dei quartieri poveri e degradati, e in Spaesamento (2010) la Palermo della spiaggia di Mondello, viale Libertà, Piazza Politeama restituiscono, in un linguaggio -scrive Mario Inglese- preciso, geometrico, scientifico, di impressionante matericità, ma percorso anche da accensioni onirico-fantastiche per la valenza metaforico-allegorica di personaggi e situazioni, una realtà locale e nazionale -sottolinea il critico- di stallo umano, letargo sociale, presente fossile. “Specchio” appare la città isolana di una Italia paga del suo cinismo berlusconiano e della sua incapacità di progettare un autentico rinnovamento. Nel primo romanzo i tre micidiali ragazzini undicenni dai crani rasati, Nimbo, Raggio, Volo che nel 1978 (anno del sequestro e uccisione di Aldo Moro), insoddisfatti                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           dell’immobilismo, banalità e volgarità di tutto ciò che li circonda, a imitazione delle Brigate rosse fruite attraverso la TV, danno vita a una loro cellula terroristica e attuano freddamente azioni feroci e violente fino al rapimento e all’uccisione del loro compagno di classe Morana, sono a un tempo un riflesso e una reazione (sostanzialmente irrazionale) alla deriva etica di tutto il paese/Italia, paese -come va riflettendo Nimbo- della desensibilizzazione degli istinti civili e del depotenziamento di ogni responsabilità. Condizione ancora più evidente nel secondo romanzo, dove il nome-feticcio di “Berlusconi” in rilievo sulla sabbia di Mondello fa da parola-marchio della indistinzione della materia e del male attuale, che -commenta Mario Inglese- è anzitutto obliterazione etica dei confini, della demarcazione tra il lecito e il suo contrario… insomma il collasso del senso. Donde la necessità della “risalita”, della ricerca della salvezza soggettiva e collettiva: se il “militante” Nimbo ne Il tempo materiale alla fine si salva per il suo                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         rifiuto della sottomissione all’”ideologia” coartante, e salva perciò, cedendo al dolore e al pianto, la bambina sordomuta Wimbow che ama (l’altra vittima designata dal gruppo, dopo Morana), una catarsi simile auspica per l’uomo contemporaneo il narratore-protagonista di Spaesamento. Dopo tre giorni di attente perlustrazioni urbane nella sua vacanza palermitana, nella parte finale del libro si affanna a riparare un metaforico ventilatore rotto con tutti gli strumenti che possano servirgli (alias -spiega Mario Inglese- tutte le umane facoltà a nostra disposizione, pratiche e astratte, per una nuova progettualità civile e sociale). Se prima ha detto: So che da Palermo non posso andare via, perché non posso andare via dall’Italia, da questa malinconia euforica (cioè “funerea”, autodistruttiva nell’apparente generale collettiva festevolezza) diffusa e permanente che sta fuori e dentro i corpi, perché questa malinconia è aria, è la cera fredda che respiro, è il tempo fatto di molecole che io come chiunque assorbo modifico e restituisco, nell’Epilogo invece leggiamo: ma so che quello che cerco è la metamorfosi della malinconia in una rabbia lucida e onesta, in una rabbia adulta che sia coraggiosa e corra il rischio del dolore, una rabbia di rialfabetizzare nutrendola di parole critiche e precise… una rabbia che mi faccia capire che Palermo è collegata all’Italia che è collegata all’Europa che è collegata all’Occidente, l’Occidente al mondo… Dall’indistinzione dunque si esce con la conoscenza/presa di coscienza dei problemi (attraverso il “dolore”),  e usando il linguaggio (le parole critiche e precise) per penetrare il caos del mondo attuale, ri-significando eticamente la realtà.                                                                                                                                                                               

La riflessione critica su Nino De Vita riconduce dall’orizzonte planetario or ora intravisto a quello “regionale”, anzi a un più circoscritto orizzonte paesologico, per conservare la terminologia di Franco Arminio citato da Mario Inglese. Dopo le poesie in italiano di Fosse Chiti (1984) infatti Nino De Vita sceglie il dialetto per farsi testimone autobiografico e cantore della sua Cutusio, una frazione di Marsala in provincia di Trapani. Ho iniziato -afferma De Vita- a scrivere versi per conservare parole che rischiavano di scomparire. Da Cutusìu (2001) a Nnòmura (2005), Cùntura (2006), Omini (2011), Tiatru (2018) l’autore, nella parlata specifica della sua contrada contadina, spazio della sua infanzia e adolescenza, e nelle poesie-racconto delle sue raccolte, “rinomina” e rievoca piante, animali, luoghi, cose, uomini e donne della sua famiglia, del suo paese e di altri piccoli paesi, ridando dignità e conoscibilità a tutto un mondo e una civiltà in declino. Una operazione che Mario Inglese definisce non tanto antiquaria, quanto etico-politica. Oggi -scrive- la devastazione degli ecosistemi e i processi di assottigliamento della biodiversità vanno di pari passo con la scomparsa di intere lingue dal pianeta. Quindi il dialetto di De Vita, che scava in un idioma locale, è un atto di resistenza contro l’entropia della voce della terra e contro la massificazione livellante e omologante del neocapitalismo.

E dalla Sicilia e dal Mediterraneo siamo ancora una volta tornati al Mondo, al mondo di oggi e alla universale condizione umana.

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