Pubblichiamo la prefazione di Nazario Pardini al volume "Il retaggio dell’ombra" di Rossella Cerniglia (Ed. Guido Miano)

EROS, THANATOS, DUALITÀ DIALETTICA,
E AMOR VITAE NELLA SILLOGE
DI ROSSELLA CERNIGLIA
 
“… E un’ondata di sdegno ancora mi travolge: / non è il Dio di Giovanni / che Signore della collera / dio di morte e inflessibile vendetta / che gli uomini - per quanto tristi e abietti - / non meriterebbero mai. / Così rifiuto l’idea di questa luce bieca / lo scenario che le pagine di questo Dies irae / di questa turpe improbabile epopea squadernano / e l’insaziabile rabbia - neppure degna dell’umano - / racchiusa nel cuore di un Dio” (Apocalypse). Dubbi, incertezze, frequenze, contatti, abbrivi escatologici; riflessioni umane, troppo umane; insoluzioni per noi terreni con gli occhi al cielo e i piedi a terra; d’altronde è proprio di noi volgere lo sguardo all’oltre rischiando sconfini, sconfitte, o anche dolori di fronte a latebre di natura temporale, impotenti nel poter comprendere i perché; incapaci di darne soluzioni. Resta soltanto da chiedere al Cielo spiegazioni sul fatto di esistere, o sul motivo di tante storture. Ancora di più ci sorprendiamo, o reagiamo spiritualmente e verbalmente se in tale Ente noi crediamo, e non ci capacitiamo delle aporie che affliggono gli umani, e di cui gli stessi umani sono la causa principale, sebbene tenda la scrittrice a giustificare l’uomo e il suo esser-ci. Magari pretenderemmo che tale Ente creasse o avesse creato solo bene: imperscrutabili orizzonti, insondabili misteri che ci assillano e ci inquietano, dacché umani destinati a congetture di terrena portata e dacché ci sentiamo a disagio di fronte al tutto o al niente: pascaliano rendiconto (Blaise Pascal, 1623 - 1662): 1) “L’homme un milieu entre rien e tout”. Anche il presente si persuade di passato in questo gioco di abili giri sinestetico-metaforici; e il risultato è sempre un tessuto in cui l’oggi l’ieri e il domani si embricano a vantaggio del non senso. Tante questioni che riguardano il fatto di esistere in cui siamo impigliati. Come lo è la Nostra che tramite le poesie di questa silloge crea uno spartito di rotonde meditazioni, di tale intrusione meditativa, da contaminare la vicenda di ognuno di noi avvinti a tali scompigli emotivi. Una vera disinvidualizzazione, anche, per rendere il lettore fruitore e attivo beneficiario dell’azione poetica; della “insaziabile rabbia - neppure degna dell’umano - / racchiusa nel cuore di un Dio”.
La silloge prende il via dal canto incipitario-testuale che, suddiviso in cinque sezioni contrassegnate da numeri romani, ci dà da subito l’acchito per navigare nel mare profondo della poematica. Un canto ispirato dalla situazione di un mondo in burrasca, obliquo, dove l’uomo sembra aver dimenticato la voce di Dio. La poetessa scuote la sua anima, la violenta, con un impeto spirituale che la porta a chiedere al Signore il perché di tanto male. Fin da subito ci si impatta con una versificazione abbondante e espansa; misure ipertrofiche si alternano ad accessori di effetto contrattivo; il poetare si adegua ai subbugli esistenziali dell’Autrice, quasi presa per mano ed accompagnata nel suo percorso ontologico-scritturale. Tutto si fa chiaro, lampante, visivo; tutto esplode in luci ed ombre, in burrasche e cieli aperti, in brume e nitori, d’altronde è proprio dalla simbiotica fusione dei contrari che si sviluppa l’anima della vita; l’anima del canto. E qui sembra che Eraclito metta del suo con la sua filosofia del pantarei e del correre del tempo; e con il cuore del suo polemos dei contrari.
Il retaggio dell’ombra, il titolo. Un titolo significativo che fa da prodromico ingresso ad una perlustrazione polivalente: poetica, umana, filosofica, naturalistica, escatologica, psicologica. L’ombra, quella parte del mare che si apre ad un cielo perturbato; ad un cielo che proietta sagome sulle spiagge deserte; o che si sbizzarrisce sulle campagne che riposano; o dentro noi nei momenti di instabilità epigrammatica, quando vediamo all’orizzonte gruppi di nubi che reificano passioni o tormenti del nostro andare.
Ma forse è proprio il mare che meglio ci rappresenta con i suoi infiniti meccanismi figurativi: estensione, fuga, profondità. Dire che si tratta di un’opera concepita per testimoniare come il mare sia parte integrante della vita della poetessa è 2) come rimandare il nostro pensiero ad Alfredo Panzini (1863 - 1939) che definì i poeti (quelli veri e la Cerniglia lo è) “simili al faro del mare”. Illumina, sì, ma una piccola parte dell’immensità marina, il resto è vaghezza, imperscrutabile viaggio, mistero; il solito che si manifesta con tutta la sua elasticità connotativa nei versi di questa silloge.
Ombre, tante ombre, che non riguardano solo il nostro rapporto con l’Alto, ma che accompagnano anche il tragitto contenutistico-formale di un’opera che si diluisce ermeneuticamente in quattro sezioni di paradigmatica complicità. Una polisemica ispirazione che copre i vari àmbiti della pluralità psicologica, della complessità interiore del mondo della Cerniglia, tanto fattiva da rendere partecipi i lettori alla sua confessione epistemologica: Dai margini oscuri, Ipogeo della notte, Dissonanze dell’ora, Paesaggio andante; “… Riposano i cigni / tacciono le acque remote / e imprendibili come pensieri / che si allungano sul niente / in percorsi infiniti” (Ecco). Ecco cosa è la vita, scrive la Cerniglia: mistero, percorsi, niente, acque che corrono indomite, dove?, diatriba tra finito e infinito, precipizi che accolgono e nascondono, che nascondono e annullano, che annullano e passano: “… è questo passo fattosi / attento sul marciapiede / per non barcollare / fretta su cui rallenti / consapevole / cercando leggerezza / al peso che porti / un’andatura conforme / al respiro della vita” (Ecco). Gioco di equilibri, leggerezza, andatura conforme. Il ricorso a fenomeniche realtà, a parametri visivi, dà chiara idea di come la Poetessa sappia trarne parallelismi antropomorfi; oggettivazioni ontologiche di una filosofia di vita, di un pensiero che scorre ardito lungo l’opera da farsi leitmotiv: “Esci. E l’illusione ti sostiene / d’essere ancora al mondo. / Vie dove transiti / palazzi e gente senza volto / ma ti danno l’illusione / d’esserci, in una almeno / astratta comunanza...” (Illusione); “… Perché ostinati non sanno / i muti occhi chiedere o tacere / e dubitosi guardano lontano / afflitti senza sguardo / per insaziato amore / poi chini un poco arresi / vergognosi per averlo / vanamente pensato - forse / desiderato - nell’istante sospeso / di quelle sue pupille inquiete / e meste, interroganti” (Inarrivabile). Dove l’evoluzione del nascere e attuarsi dell’amore viene descritta con un’analisi spietata della vista, del corpo, e dell’anima.
“… Andavo a zonzo / nell’auto mia di un tempo / un pomeriggio soleggiato / presso soltanto / a un ricordo perduto / rinnegato / ma non il solo: altri ve ne furono / del medesimo stigma... / e ancora incanta e inquieta…” (Cos’era?). Memoriale, oggetti che lo stimolano, panismo esistenziale in giornate di sole, luce, amore; tutto riporta alle emozioni, alle accettazioni, ai rifiuti, ai pentimenti, a tutto ciò che compendia una vicenda, un esistere.
“… E l’orecchio si tende / alla nota smarrita / che non ritroverò / e lo sguardo / al sorriso che nel bel sogno / mi consegnò la vita / che mai ho avuto…” (Che sforzo per sorridere). Melanconia, saudade, ecfrastiche visioni, calde percezioni, rimpianti di cose perdute, che più non tornano, senso di un tempo che fugge implacabile lasciandoci in animo immagini che tornano loquaci a farci male.
 
“… Né più ti turba un alito di vento / il paesaggio dissolto / e greve è l’aria / nel silenzio tutto immobile corpo. // Solitudine di vicinanze inutili: / non dissolvono / muri di prigione…” (Solitudine), scrive la Cerniglia nella seconda sezione dell’opera; viene da sé un raffronto con la famosa Le ciel est par dessus le toit di 3)Paul Verlaine (1844 - 1816), “… Mon Dieu, mon Dieu, / la vie est là / simple et tranquille. / Cette paisible rumeur-là / vient de la ville…” (… Mio Dio, mio Dio / la vita è là / semplice e tranquilla / questo piacevole rumore / viene dalla città…”), dove il poeta francese, condannato a due anni di prigione, medita in solitudine prima del suo trasferimento a Mons en Belgique. Tutto ciò che lo circonda contribuisce a dare rilievo e consistenza ai suoi abbrivi; ciò che accade nella poesia della Cerniglia, un vero metamorfico passaggio dall’anima al vento, all’aria, al silenzio, muri di prigione.
Ed eccoci a poesie altrettanto significative della seconda sezione quali: “… piccoli arbusti tessono / ora la mie orbite / le viole fioriscono alla base / del mio cranio ed io mi beo / dell’immenso rigurgito di vita / che sotto il sole si spalanca / e muore” (Teschio e viole). Dove visioni oracolari, di forte suggestione, mischiano morte e viole in un rigurgito di vita che si spalanca e muore alla luce del sole. Ma una morte che per l’Autrice ha sempre valore di rinascita mai di fine.
“… Lunghe giornate inerti / navigando percorsi obbligati / dentro ad un buio silente: / il vuoto dello sfondo / di quel peregrinare…” (Non sai). Giornate inerti, percorsi obbligati, buio silente, vuoto, peregrinare; un insieme di sostantivazioni e aggettivazioni, di infiniti verbali senza posa, concretizzano uno stare in bilico tra staticità e intenti di viaggio. È l’onirico che spesso dà man forte a soluzioni di empatico trascinamento.
“… Una pesantezza di morte / agita le ali / del nero uccello / che taglia il muto stagno / scuotendo ali di cencio…” (Celebrazioni). È la presenza di Thanatos che torna con la sua pesantezza sulla scena a contagiare stagni muti e desolati. Una melanconia che copre le cose, e che dà energia all’afflato del canto.
“… So per certo / che nulla verrà a me / oggi // vedo una quercia / che il fulmine ha schiantato: / né più risorgerò / come l’araba fenice…” (Non dubito). Una diatriba tra essere e non essere, tra finire e risorgere, tra pensiero e annullamento, genera gli interrogativi della Cerniglia; interrogativi che trovano solo consistenza nello strappo della quercia ma che restano senza una vera soluzione. Questa, d’altronde, è la sorte del nostro vivere, spesso combattuto tra elementi divaricati che forse meglio denotano questo nostro soggiorno effimero e fugace.
“Ci sono gabbie ai confini / attendamenti di morte selvaggi / alle frontiere e bivacchi funerei / da cui un fumo si leva / pesante / tra melma e rovine / tra stracci arroccati svolazzanti / e ripari più sconci di canili / nei ghetti improvvisati lì sul poggio / esiliati ed estremi alla città…” (Esodo). È la sezione dell’Ipogeo, del sottoterra, del regno di Thanatos; e qui è naturale che vigoreggi un fumo pesante tra melma e rovine, agli estremi della città, oltre. Là c’è la vita che va in fumo; uno squallido residuo di nottate d’amore. La poesia della Cerniglia è una vera via crucis, una ascensione, una verticalizzazione, un percorso di péne e melanconici riscontri, per giungere alla fine alla vittoria della luce sul buio.
“… Di tutto il dolore vissuto / è qui il paradigma oscuro / in quest’ora fugace di buio / che addensa in immenso torpore / a dirmi com’è pregna la vita / di male e prospera e invitta / l’oscurità che divora la Luce” (La sera sopraggiunge). Anche se in questa lirica sembra prevalere il buio, e anche se nella felice rappresentazione tanto vicina al nostro redde rationem si sfiora una visione piuttosto triste e negativa della nostra vicenda, pur tuttavia non tarderà la Nostra a chiudere il discorso incentrandolo sulla diatriba dialettica di vita-morte, morte-vita dove l’individuo, anche se è destinato a soccombere, lascerà pur sempre il seme che continuerà imperterrito a fiorire come i petali della piccola rosa.
 
E attraversando le composizioni della terza sezione (“E nel risveglio del domani / si versa oscura nube / e indietro mi trascina…”, Ombra; “… ma è lì la dissonanza / il non accordo / un mondo freddo e grigio / a isterilire l’anima…”, Fino al tempo dorato; “… lacrimosi rigagnoli / gocciolano un cielo oppresso / gonfio di nulla / cieco d’ogni speranza…”, Sull’autostrada; “La vita? / A lungo la chiamarono / condanna…”, Vita; “…Non c’è più traccia di essi (uomini) / neanche se Diogene ancora li cercasse / andando in giro col suo lanternino…”, Pensieri della sera; “Racconto? Non c’è racconto / per questa triste età di pietra…”, Racconto; “… è questo / ciò che sei / ciò che sei diventato / il tuo esserti nutrito / dentro al male…”, Rogo), si giunge alla chiusura con la poesia dal titolo Destino: “Aspetto / ai margini del tempo / la tua Voce // o Sogno o Estasi lontana // quel che mi pare / di toccare / svanisce…”, dove prevale un senso di aereo e instabile stato d’animo; dove tutto è legato al tempo che preda e allontana, inviandoci voci sfumate, tinniti di primavere, affetti evoluti in immagini archiviate…
Ma c’è una composizione che concretizza nei petali di una rosa la filosofia di vita della Cerniglia; mi piace citarla per chiudere il mio discorso esegetico: il fiore che vince la morte, che torna ripetutamente a rinascere, a superare la forza negativa di un Thanatos che può solo interrompere il flusso di una stagione. Una dialettica che si perpetra nel tempo, fino all’infinito: Vita-morte, morte vita: un connubio da cui si genera il respiro. Nel tempo la rosa insiste caparbiamente a profumare e colorare la natura, per sopravvivere gagliarda con l’arma della Bellezza: “… lentamente / si sfoglia // ogni petalo / da lei si divide // e la morte / che la vince / è il suo eterno / fiorire.” (Rosa). Ed è con la Bellezza della rosa, coi petali che cedono al tempo lasciando le impronte per un futuro, che mi piace sigillare il cuore di questo proteiforme spartito atto ad aprire un finale risolutivo: chiudere il percorso di questa complessa e articolata vicenda spirituale significa far risaltare il pensiero dominante della Poetessa: la vita è quel miracolo che ci capita tra le mani, e di cui, volenti o nolenti, noi beneficiamo. Ed è essa che con tutte le sue armonie o disarmonie ci dice che esistiamo; e riflettere sul fatto che ci siamo non è cosa da poco in un mondo dove la corsa si fa dura, e ci fa dimenticare persino il valore dell’amore.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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NOTE
 
1) Blaise Pascal. Pensieri. Bompiani. 2014.
2) Leone D’Ambrosio. Prefazione a Colloquio con il mare e con la vita, di Nazario Pardini. Pubblicazione Premio Libero De Libero, Confronto, 2013.
3) Paul Verlaine. Poesie d’amore. Demetra, 2018, traduzione di Nazario Pardini.
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