Quando gli italiani insorsero per difendere l’ethos nazionale – di Domenico Bonvegna

Il testo “1861-2011. A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia. Quale identita?” (Cantagalli 2011), che ho iniziato a presentare studia il processo di unificazione nazionale è suddiviso in due Parti (I. Origini e dinamiche del processo risorgimentale; II. Temi e Questioni). Nella I parte viene affrontato il tema delle Insorgenze, una pagina di Storia che fino a qualche decennio fa era poco conosciuta. Su questa pagina di storia, “Cadde il silenzio e si verificò una rimozione [...]”, scrive il compianto Sandro Petrucci. Tra il 1796 e il 1799, tutti i popoli italiani si sollevano contro gli eserciti napoleonici.
Le insorgenze furono lette attraverso la lente del Risorgimento, cioè nella prospettiva di una rivoluzione nazionale, “democratica”. Per esempio il sanfedismo meridionale, che aveva visto protagonisti i Lazzari napoletani guidati dal cardinale Fabrizio Ruffo, si riduce a lotta di classe, in chiave marxista. Questa versione viene superata in particolare dai Saggi di Studi Storici, curati da Anna Maria Rao, che all’interpretazione economica aggiunge anche la componente religiosa. A questo punto Petrucci nelle note fa riferimento a diversi studi sul tema, naturalmente non può mancare la vivace storiografia "revisionistica" intorno all’Istituto per la Storia dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale.
“L’insorgenza non fu - scrive Petrucci - una reazione armata innanzitutto contro lo straniero, ma contro un potere estraneo al sentire e al vivere popolari, identificato con la volontà di mutare radicalmente tradizioni civili e religiose, rifare la società, costruire la nazione, dunque ‘rivoluzionare’”. Lo studio delle caratteristiche dell’Insorgenza è fondamentale, perché rivela i caratteri propri della storia dei popoli italiani e rappresenta un momento importante per comprendere le contraddittorie vicende degli ultimi duecento anni e oltre.
Non mi soffermo troppo sulla morfologia dei moti insurrezionali contro le truppe napoleoniche, l'ho fatto in altre occasioni. E’ importante scrivere che fu una resistenza di gruppi armati con una direzione militare e politica, dotati di uniformi e di una strategia. Gli insorgenti, non furono affatto orde di fanatici, ma gruppi organizzati, definiti “masse”, forse per disprezzo. E’ una vera e propria storia militare; le insorgenze possono essere lette come una risposta alla nuova concezione della guerra, di massa e ideologica, promossa dalle truppe francesi. Il saggio di Petrucci cita una certa letteratura contro-rivoluzionaria che si sviluppò in particolare a Roma, all’indomani della Rivoluzione francese. Peraltro si tratta di opere di nomi sconosciuti ai più come quelle di monsignor Giovanni Marchetti, o il saggio di padre Gustà. “Circolavano in quegli anni - scrive Petrucci - opuscoli, libelli, manifesti che spronavano i popoli alle armi, facendo leva non solo su temi religiosi, ma anche sulla difesa della nazione italiana, riprendendo l’idea di una guerra contro-rivoluzionaria”. Infatti monsignor Marchetti, nel 1796, auspicò ungenerale sollevamento di tutti i popoli della cristianità” contro gli oppressori francesi e i loro sostenitori, i ‘giacobini’ italiani, una mobilitazione da non intendersi, però, come sostegno incondizionato del popolo alle monarchie assolutistiche, ma in vista del recupero delle antiche libertà civiche”. In questo periodo come non ricordare le gesta del principe di Canosa, Antonio Capece Minutolo, che armò i Lazzari napoletani nella difesa di Napoli.
Importante specificare come fece lo storico fiorentino Paolo Pastori, insistendo sull’esistenza di una consapevole progettualità socio-politica dell’insorgenza, almeno in alcuni momenti. Pastori è convinto che l’Insorgenza, “si sarebbe opposta sia al rivoluzionarismo giacobino, sia al riformismo assolutistico dei sovrani - del resto in continuità l’uno con l’altro - in nome di una società che salvaguardava i corpi intermedi e le istituzioni rappresentative di stampo tradizionale”.
L’altro saggio pubblicato in questa I parte è quello di Renato Cirelli (Il processo unitario da Napoleone Bonaparte a Porta Pia) Napoleone, definito da Cirelli, prima, “il braccio armato della Rivoluzione”, poi, “dittatore salvatore dell’ordine”, quindi imperatore con una immagine diversa dagli antichi sovrani. Napoleone ha fondato una macchina amministrativa e politica centralizzata. Il nuovo impero si fonda sull’egemonia dello Stato francese. In dieci anni la carte dell’Europa è sconvolta e ridisegnata, il tutto basato sulle armi e sulle idee rivoluzionarie. Sconfitto Napoleone, rimane la sua idea di Stato gerarchico e accentratore e quindi non c’è da meravigliarsi che la Restaurazione dopo il Congresso di Vienna, sia pronta ad adottarlo soprattutto in campo fiscale.
La Rivoluzione non ha smesso di operare, le avanguardie rivoluzionarie si organizzano, nascono dappertutto le società segrete, che portano avanti l’idea del nazionalismo. Prende corpo un progetto di laicizzazione, a cominciare dallo Stato, il nemico principale diventa la Chiesa cattolica, che attraverso le sue articolazioni religiose e sociali, tutela le classi indigenti. La presenza dello Stato Pontificio e l’adesione di gran parte della popolazione alla religione cattolica, impedisce la realizzazione della Rivoluzione politica, che vuole modellare la società su principi contrari rispetto a quelli del cristianesimo. Pertanto viene lanciata una guerra contro tutti i prìncipi legittimi italiani, compreso il Papa, per realizzare una repubblica unitaria, centralizzata, popolare, caratterizzata da una religione civile anti-cattolica.
Cirelli da spazio anche a quell’idea federale, che per un certo periodo ha interessato diversi esponenti anche cattolici come Vincenzo Gioberti, Cesare Balbo, ma soprattutto Antonio Rosmini. Alla fine prevalgono altre idee, quelle di Cavour e di Garibaldi, con una Italia unita e centralizzata in mano a casa Savoia. “I vincitori danno vita a un’Italia ingessata, socialmente nemica dei ceti popolari, persecutrice della religione e distruttrice di tutte le tradizioni autenticamente nazionali, creando una questione meridionale e una questione cattolica e sociale destinate a trascinarsi a lungo”. Sono temi che saranno affrontati nella II parte dell’importante testo. Ma prima Oscar Sanguinetti affronta il nodo principale del libro, della storia italiana contemporanea: il Risorgimento. Il Risorgimento ha diviso la nostra storia nazionale, lo scrive il politologo Ernesto Galli della Loggia. “La nazione nasce da due nazioni che si sono combattute con le armi e messe fuori legge. Il grave è che la storiografia sia stata lo specchio fedele di questa frattura della storia, anzichè provarsi a comporla. a comprenderla”.
Tutte le letture del Risorgimento non dovevano mai mettere in discussione né l’unificazione, né il ruolo-principe della monarchia sarda e neppure soprattutto eccepire sulla grandezza degli “eroi nazionali”: Mazzini, Garibaldi, Cavour, in pratica l’ideale “trinità”, formata dall’Apostolo, dall’Eroe dei Due Mondi, dal Tessitore. E’ questo l’insegnamento del “politicamente corretto” che viene propinato nelle scuole. Chi violava questo cliché, chi voleva uscire da questa imperante agiografia, veniva guardato con sospetto, come un potenziale eversore, traditore della patria. Ancora peggio capitava di vedersi sistematicamente preclusa o resa difficoltosa la carriera docente. Oggi, forse, non è più così, dopo tanti libri, documenti, che hanno riscritto la vera Storia del cosiddetto Risorgimento.
Sanguinetti ci offre un interessante percorso di studiosi che possono essere considerati “non -conformisti”, a partire dagli anni intorno all’Unità. Ne cito qualcuno, fondamentali sono i cinque volumi della “Storia delle Due Sicilie” del napoletano Giacinto de’ Sivo, usciti nel 1863 e il 1867. Poi c’è l’opera del filo-borbonico don Giuseppe Buttà, autore di “I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli” e del più noto, “Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta”, poi riedita nel 1985 con una presentazione di Leonardo Sciascia. In questo periodo si potrebbe definire storica anche l’opera del salesiano don Giovanni Bosco, che ha scritto un’accurata Storia d’Italia per i fanciulli nel 1856. Infine, un altro storico di spessore è il francese Jacques Cretineau-Joly. Poi ci sono i nomi che appartengono al periodo che va dall’Unità al Fascismo. E qui è importante sottolineare l’opera dell’irlandese, parlamentare britannico, Patrick Keyes O’Clery, due ampi volumi, “The history of the Italian revolution. First period, the revolution of the barricades, 1796-1849”. Opera riedita dalle Edizioni Ares, nel 2000, col titolo, “La Rivoluzione italiana. Come fu fatta l’unità della nazione”.
Durante il fascismo, considerati “gli anni del consenso”. Per Sanguinetti, “il fascismo si arroga l’onere e il merito di portare a compiutezza l’ideologia e il processo risorgimentali, innestando nella mitologia unitaria la Leggenda del Piave e l’orgoglio di Vittorio Veneto e imprimendo alla mitologia complessiva medesima caratteri di religione civile e di religione politica di massa, ricca di elementi liturgici e simbolici pre-cristiani o neo-pagani”.
Poi nel secondo dopoguerra “gramsciano”, l’interpretazione canonica del moto risorgimentale e la sua vulgata, viene affidata alla storiografia liberale, nazionalistica e marxista. Naturalmente in questo periodo non mancano gli oppositori a cominciare dai pregevoli lavori storici, araldici e iconografici del napoletano Silvio Vitale, nonchè i lavori, frutto di ricerche storiche di rilevante spessore del lucano-napoletano Carlo Alianello.
Con la caduta del Muro di Berlino nel 1989 entrando in crisi le “teologie” filosofiche-politiche del secolo XX, entra in crisi anche il cliché risorgimentale, qualcosa cambia. “La leggenda del Risorgimento scolora, il modello trionfalistico oggi non è più lex credendi, i suoi fautori - benché continui l’egemonia dei filo-risorgimentali negli apparati culturali e accademici e costoro continuino a godere di alte rendite sociali - non possono più scrollarsi con fastidio di dosso le critiche, ma devono scendere sul terreno del dibattito e muoversi in un contesto sempre più aperto e concorrenziale”.
Grazie all’esplodere della Questione Settentrionale negli anni 1990, oggi il ripensamento delle modalità di formazione dello Stato unitario trova maggiore spazio. A far franare il clichè vigente dei “baroni” della storiografia ufficiale, non solo della Rivoluzione francese, ma anche del Risorgimento, sono stati un gruppo di storici, studiosi di valore che non sempre possono essere considerati reazionari e anti-risorgimentali come Emilio Gentile, Francesco Perfetti, Renzo De Felice, Ernesto Galli della Loggia, Zeffiro Ciuffoletti, Domenico Settembrini, Sergio Romano e tanti altri. Poi ci sono quelli che possono essere considerati contro-rivoluzionari come Angela Pellicciari, Roberto De Mattei, Rino Cammilleri, Francesco Mario Agnoli, Sandro Petrucci, Massimo Viglione, Antonio Socci, Lorenzo Del Boca. Sicuramente sarà rimasto fuori qualche nome, da questi elenchi, una bibliografia di critica del Risorgimento, richiederebbe più spazio. Certamente queste voci “fuori dal coro”, si sono disperse, forse, non sono riuscite a farsi udire, e diventare un vero “contro-coro”, scrive Sanguinetti.
 
 
 
 
 
 
 
 
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