"Sulla Sovranità Alimentare" di Carmelo Muscato

Normalmente consumiamo latte francese, nocciole turche, ceci messicani, aglio spagnolo, mandorle californiane e il grano con cui viene fatta la maggior parte del nostro pane e della nostra pasta è canadese. Tutto ciò è assurdo perché noi abbiamo tutti questi prodotti e anche di qualità superiore a quelli importati. Ma è l’effetto della globalizzazione, che ci impone l’importazione di questi prodotti e altri ancora, con i relativi problemi di sicurezza alimentare.

Cosa possiamo fare per contrastare questa situazione? boicottare, protestare, denunziare sono poco più che un solletico a questo corso dell’economia globalizzata. Non dico che iniziative del genere non siano lodevoli, non fosse altro per non subire passivamente. Però sono convinto che per uscire da questo vicolo cieco occorre percorrere un’altra strada.

Innanzitutto è necessario una presa di consapevolezza, affinché non ci accada di combattere le multinazionali e la globalizzazione senza accorgerci di quanto siamo affezionati ai nostri inseparabili smartphone, prodotto esemplare della violenza e dello sfruttamento della globalizzazione. Più in generale è necessaria una comprensione storica, affinché non ci accada di deprecare la globalizzazione e rimanere affezionati a ciò che l’ha prodotta. Il rischio c’è, perché quando parliamo di sovranità alimentare più o meno consapevolmente invochiamo il concetto di sovranità nazionale che è imparentato con quello di globalizzazione. Benché a prima vista sovranità nazionale-globalizzazione possa sembrare un ossimoro, può essere utile riflettere sulla loro radice comune che è la modernità.

In effetti “sovranità” è un concetto moderno, essa è la caratteristica dello Stato come fonte del diritto, la condizione giuridica di chi “sta sopra”, il potere originario, indipendente e assoluto in quanto sopra di esso non c’è altra fonte di potere. Il concetto stesso di Stato è un concetto moderno, esso è l’organizzazione politica nata dal contratto sociale, in cui la fonte del potere è il popolo: lo Stato-nazione. La sovranità dello Stato è tale nella misura in cui è riconosciuta al suo interno dai cittadini e all’esterno dagli altri Stati. Questa idea di Stato e di sovranità, che oggi ci sembra qualcosa di naturale e assolutamente giusto, quasi un’idea metastorica, in realtà è un prodotto storico, che come tutto ciò che è storico ha un inizio e una fine. Nell’orizzonte pre-moderno non c’è posto per questa idea di sovranità: in quanto il potere viene dall’alto, sopra il detentore del potere c’è sempre qualcuno, c’è Dio. E d’altra parte nell’attuale contesto post-moderno il concetto di Stato è entrato in crisi, e con essa anche la sovranità nazionale. La formazione dell’Europa ha reso necessaria una graduale cessione di sovranità da parte degli Stati membri a favore dell’UE. Ma tale crisi ha un senso più ampio è più irreversibile proprio per quell’immenso processo di trasformazione chiamato globalizzazione: lo sgretolamento della sovranità nazionale avviene non solo per l’adesione a un progetto politico sovranazionale come l’UE ma soprattutto ad opera delle multinazionali e della finanza.

La comprensione storica dovrebbe renderci consapevoli che un ritorno all’idea ottocentesca dello Stato-nazione è improbabile, per cui cercare di arginare gli effetti devastanti della globalizzazione attraverso questa via è quanto meno problematico. Ma soprattutto potrebbe aiutarci a comprendere che un tale ritorno non sarebbe nemmeno auspicabile, in quanto i presupposti storici su cui si è edificato il moderno Stato-nazione sono gli stessi che hanno condotto alla globalizzazione.

Se ci concediamo uno sguardo storico di ampio respiro, possiamo vedere come la globalizzazione non nasce a caso e non riguarda solo gli ultimi decenni: andando indietro di alcuni secoli possiamo vedere il suo sorgere, il suo svilupparsi sino alla sua piena affermazione. E lo possiamo vedere nelle tre tappe della Rivoluzione industriale, le quali sono state caratterizzate da un crescendo di:

  1. innovazione tecnica che ha determinato un aumento della quantità e una diminuzione della qualità della produzione
  2. necessità di integrazione dei mercati per dare sbocco alla accresciuta quantità di produzione
  3. sviluppo dei trasporti necessario alla realizzazione di questa integrazione

Probabilmente il primo punto non è immediatamente evidente quando dico diminuzione della qualità, se non in quest’ultimo stadio in cui siamo invasi dal made in China. Ma lo sarà se terremo conto di alcune osservazioni che farò fra un po’.

Ad ogni modo è chiaro a tutti che per comprendere il fenomeno della globalizzazione non si possa prescindere dal comprendere quello della Rivoluzione industriale. Ma per fare ciò, non dobbiamo fermarci agli aspetti eclatanti, come l’introduzione delle macchine nel sistema produttivo. Rivoluzione agricola e rivoluzione industriale sono le due grandi rivoluzioni dell’umanità. Le uniche in cui il termine rivoluzione è impiegato in senso proprio, di cambiamento a 360 gradi, le uniche che hanno determinato un cambiamento antropologico. Quindi dobbiamo riflettere a un livello che ci faccia comprendere tale mutamento.

La rivoluzione industriale affonda le sue radici nel basso medioevo, con la nascita all’interno del ceto produttivo di una classe sociale: la borghesia. Una classe che, dirà Marx, ha capovolto lo schema MDM (merce-denaro-merce), in DMD’, ossia che ha trasformato il denaro da mezzo di scambio a fine dello scambio. Non dobbiamo pensare alla Rivoluzione industriale come alla fortunosa congiuntura di invenzioni e innovazioni tecniche. Il proliferare delle innovazioni tecniche è solo l’effetto di una trasformazione sociale e culturale. È questa trasformazione che costituisce in senso proprio la “rivoluzione” in quanto essa non riguarda solo i modi di produzione. La società ne risulta sconvolta, ma anche la sfera politica che sempre più tende a ridursi alla sfera economica. D’altra parte l’Economia come disciplina non si limita a studiare le attività volte alla sussistenza ma gradualmente e costantemente si manifesta come disciplina totalizzante, per cui si è parlato di “imperialismo economico” nelle scienze sociali (Jack Hirshleifer, 1985). È nato così un nuovo paradigma antropologico, l’Homo oeconomicus, di cui la cosiddetta Scuola di Chicago è stata una delle voci di maggior successo. E alla Scuola di Chicago si richiama Gary Becker, nobel per l’economia nel 1992, il quale concepisce l’Economia in una forma nuova. Come recita il titolo di una delle sue opere più rappresentative, The Economic Approach to Human Behaviour, Becker concepisce l’Economia non più come studio di fenomeni economici in senso stretto ma come un metodo di analisi che può essere applicato a ogni aspetto della vita umana.

Tornando più direttamente al nostro tema, dobbiamo fare attenzione quando parliamo di sovranità alimentare che non ci accada inconsapevolmente di rifiutare gli effetti di un cambiamento senza mettere in discussioni le cause e i presupposti che hanno determinato quel cambiamento. Per salvarci dalla globalizzazione è necessario prendere consapevolezza di quale mutamento profondo sta dietro tanto alla Rivoluzione industriale quanto allo Stato moderno. La sovranità alimentare che andiamo cercando difficilmente la troveremmo nella direzione di un nostalgico e anacronistico ritorno alla sovranità nazionale. Certamente ci sono margini di azione in questo senso, per esempio una legislazione nazionale che imponga una chiara distinzione tra prodotti di origine italiana e prodotti di origine estera. Tuttavia l’azione più radicale verso la sovranità alimentare passa attraverso la ricerca di una sovranità più intima, la consapevolezza di quello che siamo e di quello che rischiamo di perdere.

Se la radice della globalizzazione risiede nel cambiamento antropologico che abbiamo visto, è lì che dobbiamo anche cercare la sua soluzione. È un cambiamento accaduto nella mente dell’uomo, nel modo di intendere la ragione umana, il nostro essere razionali. Con l’Homo oeconomicus la ragione è diventata ragione strumentale: abbiamo dei bisogni o dei desideri, di cui non conosciamo l’origine e la natura, essere razionali e fare le scelte razionali significa semplicemente massimizzare l’utilità dei mezzi a disposizione – a prescindere di quali siano bisogni e desideri che costituiscono i fini. Ragione è solo lo strumento per soddisfare desideri e bisogni.

È questo il mutamento profondo che sta alla base della modernità, che determina la Rivoluzione industriale ma anche il nuovo concetto di Potere politico: lo Stato-moderno, la sovranità. Comprendo che quest’ultimo passaggio non è immediatamente evidente, tuttavia sarebbe sufficiente considerare come il vero iniziatore di questa concezione moderna dello Stato e della sovranità, Th. Hobbes, è anche l’iniziatore del nuovo modo di concepire la ragione in senso strumentale: ragionare – dice Hobbes – non è altro che calcolare. Si tratta dunque di un passaggio epocale, che non è facile da cogliere in quanto vivendo e respirando dentro questo nuovo orizzonte, siamo portati a pensare che al di là di esso non ci sia altra realtà. Possiamo però ricorrere a una pagina della Repubblica di Platone, in cui questo cambiamento è mirabilmente spiegato. Descrivendo il passaggio dalla timocrazia all’oligarchia, Platone dice che l’uomo oligarchico:

 

“…spaventato, butta giù dal trono dell’anima sua, a capofitto, l’ambizione e il principio animoso. Avvilito dalla povertà, si volge agli affari, e con tenace e graduale risparmio e lavoro riesce ad ammassare capitali. Non credi che tale persona insedierà allora su quel trono il principio appetitivo e avido e lo farà grande re entro se stesso, cingendolo di collane e scimitarre? - Io sì, rispose. - Poi, depone a terra lì accanto, ai due lati di esso, i princìpi razionale e animoso e glieli rende schiavi; e al primo non lascia calcolare né studiare se non il modo di aumentare i capitali, al secondo non permette di ammirare né onorare se non la ricchezza e i ricchi, né ambire se non l’acquisto di capitali e altro che possa contribuire a questo fine”.

 

Se prendiamo profonda coscienza di questo cambiamento, possiamo pazientemente ricominciare a parlare di sovranità in un altro significato rispetto a quello dello Stato ottocentesco. Si richiede di nuovo una rivoluzione, dove stavolta però il cambiamento non riguarda il sistema produttivo ma la prospettiva della coscienza, del soggetto: quello che Platone definisce “diventare padroni di sé stessi”. E poi anche il corso dell’economia seguirà questo cambiamento.

Innanzitutto se comprendiamo la devastazione della rivoluzione industriale, allora possiamo rivalutare un’idea di economia che nell'epoca del liberismo viene considerata un’eresia: l’economia di autoconsumo. Nell’era della globalizzazione le imprese locali sono stritolate dalle multinazionali: quelle che una volta potevano essere realtà economiche locali ed autonome ora devono accettare di essere inseriti in un mercato globale, la cui regolamentazione della domanda e dell’offerta avviene in modo sempre meno trasparente e lontano dai luoghi di produzione. Dicevo contrastare o boicottare le multinazionali sarebbe come combattere contro i mulini a vento. Se lo stesso prodotto costa meno io finirò per cedere a questa convenienza rinunciando ai miei buoni propositi di favorire l’economia locale. Ma quello che cerchiamo di fare è un discorso diverso. L’economia di autoconsumo di cui parliamo nasce da una precisa visione filosofica che si pone alcune domande: chi sono io? da dove vengono i miei desideri e qual è il senso dei miei bisogni? quali sono le mie relazioni con gli altri essere umani e qual è il loro significato? Parliamo di una consapevolezza che rimetta in discussione il ruolo stesso dell’economia, ricollocandola al suo giusto posto.

L’economia standard è intesa come “l’impiego di risorse scarse, razionalmente orientate alla massimizzazione dell’utilità individuale”. O secondo la nota definizione di Lionel Robbins: “la scienza che studia il comportamento umano come relazione tra fini e mezzi scarsi che presentano usi alternativi”. Sembrerebbe una definizione puramente descrittiva, neutra, obbiettiva. Ma in realtà essa contiene già una filosofia, implicita e più o meno inconsapevole. Essa ci parla di una disgrazia che ci è capitata: quella di trovarci nella scarsezza dei mezzi, di fronte alla quale bisogna pensare alla maniera economicistica, ossia quella dell’Homo oeconomicus. E se la scarsezza dei mezzi anziché una disgrazia fosse qualcosa di diverso? Per esempio il sistema biologico per l’evoluzione? In altri termini posso considerare i miei bisogni così come sono e cercare solo di soddisfarli, oppure mentre cerco di soddisfarli posso interrogarmi su di essi e su me stesso. Nel primo caso la mia intelligenza sarà solo strumento, nel secondo sarà principio di orientamento e di conoscenza di sé e della realtà. Ancora: l’orizzonte in cui è nata e prosperata la globalizzazione è l’individualismo: l’Homo oeconomicus è quella monade la cui intelligenza consiste solo nell’ottimizzare i mezzi per soddisfare i propri bisogni e desideri, come se il soggetto dei bisogni fosse solo su questa terra. Ma se invece interpretassimo i bisogni come espediente della vita per farci uscire dall’individualismo, da quella gabbia d’orata che è la dimensione egoica? E l’intelligenza o la ragione, anziché essere mero strumento per soddisfare i bisogni individuali, consistesse nell’ampliamento della consapevolezza, nella visione della realtà da un punto di vista più ampio rispetto a quello individuale?

Un tale modo di intendere l’economia, oggi invero abbastanza insolito, lo troviamo nell’orizzonte premoderno, come quello della polis greca. Non stiamo parlando di tornare indietro, la storia ci serve per pensare quello che nel presente non è agevole pensare. La polis per i Greci era la piena realizzazione dell’individuo. Per cui Aristotele dice: “l’uomo è un animale politico e chi non vive in un polis o è una bestia o è un dio”. L’uomo fuori dalla polis non è un uomo. È soprattutto Platone a mostrare come la polis sia a un tempo una comunità economica e politica, un’anima scritta a grandi lettere, necessaria da un punto di vista strettamente economico perché l’individuo da solo non basta a sé stesso, ma anche luogo di realizzazione della giustizia e di svelamento della sua natura più profonda.

In questa visione quindi è proprio grazie al fatto che abbiamo bisogno degli altri che possiamo realizzare la nostra natura politica. La condizione per cui siamo costretti a ricorrere allo scambio ci permette anche di elevarci da una condizione puramente animale a quella tipicamente umana. Quindi l’economia è un trampolino di lancio per accedere alla piena realizzazione della natura umana. Il lavoro non è solo una necessità per sopravvivere ma è il mezzo per realizzare le nostre potenzialità cognitive. Quando un falegname costruisce una porta o un tavolo, non ha solo risposto a una necessità ma anche contemplato un’idea: le maestranze sono prima di tutto una scuola di formazione e di autorealizzazione.

E d’altra parte il commercio va limitato, perché lo scopo non è guadagnare di più ma vivere bene. Platone dice che la polis deve mirare prima di tutto all’autosufficienza, e prescrive che le importazioni siano ridotte all’osso. Non si possono abolire del tutto, perché ci saranno sempre delle cose che dobbiamo importare. Ma una comunità è molto più forte se tutto quello che può produrre se lo produce da sé. Apparentemente la storia sembrerebbe contraddire Platone, in quanto nel corso della storia moderna è stata considerata vincente l’economia di mercato: non produrre da te quello che puoi comprare a un costo di minore rispetto a quanto costerebbe se lo producessi tu. Questa è una valutazione economicistica, cioè viene considerato l’aspetto puramente economico mentre Platone considera inseparabile l’economia dalla politica (e la politica dall’autorealizzazione). Intanto non sarebbe poi così difficile, proprio a partire dal problema che qui ci stiamo ponendo, della sovranità e della sicurezza alimentare, accorgersi della falla dell’economicismo. Ma è al rapporto tra economia e politica che dobbiamo guardare per comprendere Platone e per una via d’uscita dal vicolo cieco della globalizzazione. La polis è quella forma di comunità che realizza l’autosufficienza, quel punto di vista superindividuale, che prende spunto dal bisogno immediato per sviluppare la dimensione politica come dimensione propriamente umana. È il luogo di scambio non solo dal punto di vista materiale. Ecco perché il commercio va ridotto al minimo. Perché è lo scambio economico tra i cittadini che ha un valore politico. Un’economia di autoconsumo è un’economia che non separa la produzione dalla commercializzazione: principalmente l’economia produce per rispondere a un bisogno della comunità. In questo contesto lo scambio economico è una comune comprensione di bisogni e un esercizio di risposta comune ai bisogni. La relazione civile è elemento costitutivo dell’economia. Come dire: se produttore e consumatore si incontrano c’è uno scambio di prodotti ma anche uno scambio di conoscenza, un arricchimento umano.

Dov’è la relazione civile nell’era della globalizzazione? Andiamo al centro commerciale, in maniera del tutto anonima, prendiamo le cose dagli scaffali e ce li portiamo a casa. Soli eravamo e soli continuiamo a essere dopo lo scambio. E naturalmente nell’era della new economy compriamo direttamente da casa, nemmeno usciamo, non guardiamo in faccia non solo il produttore ma nemmeno il distributore. Non c’è alcuna relazione tra consumatore e produttore. Non sappiamo niente della fatica e della gioia di chi produce. La filiera corta ha dei vantaggi economici in senso stretto, perché risparmia sul trasporto e sulla mediazione commerciale, ma io credo che la filiera corta può affermarsi quando si comprende che essa contiene molto di più che un prezzo più basso: comporta la ricchezza di uno scambio civile. La conoscenza di chi produce, in quali condizioni lo produce, la ricchezza dell’esperienza umana che sta dietro un prodotto, e dall’altro lato, la conoscenza del consumatore, le sue richieste, le sue valutazioni, la sua esperienza di consumatore.

In questa ottica, lo scambio economico diventa il trampolino di lancio per un rapporto civile, spesso per un’amicizia. Quando questo diventa esperienza, allora me ne frego se il prodotto della multinazionale costa di meno. Scelgo di andare dal mio amico, perché mi piace avere quello che ha prodotto lui, portando a casa con il prodotto il suo sorriso. Perché quando compro da chi conosco, non compro solo il prodotto, ma nello stesso tempo ho uno scambio dal forte valore umano, in cui entrano la fatica, la speranza, in una parola un rapporto civile.

Per cogliere la concretezza di questo discorso possiamo fare la prova del nove e pensare come sarebbe la nostra vita se non ci fosse bisogno di lavorare: poniamo che l’essere umano non deve lavorare perché un grande benefattore gli ha dispensato lo stipendio a gratis. Che fa? sta casa? E guarda la televisione? non si fa venire idee per risolvere problemi che non ha? Che il lavoro sia solo un mezzo per sopravvivere è una grande sciocchezza! Non cogliamo il senso del lavoro nemmeno quando diciamo che il lavoro dà la dignità, perché anziché essere un mantenuto ho la dignità di portare il pane a casa: anche in questo a caso si pensa al lavoro sempre e solo come un mezzo per la sopravvivenza. Il lavoro è tutto questo ma anche molto di più! è la possibilità di estrinsecare le mie facoltà, la mia intelligenza, la mia creatività. E tutte queste cose si realizzano magnificamente nella dimensione sociale a cui sempre il lavoro ci costringe!

Quindi quando prima parlavano dell’abbassamento della qualità dei prodotti industriali, dicevamo che oggi ciò è reso plateale dall’invasione dei prodotti cinesi. Ma in realtà a ben guardare esso era visibile già agli esordi della rivoluzione industriale. Dove il lavoro non è frutto di una maestranza, che significa esercizio di intelligenza, contemplazione e realizzazione. Ma è esecuzione sganciata dalla sua dimensione cognitiva e psicologica. Al contrario un tavolo prodotto da un artigiano trasferisce l’esperienza del falegname: compro il tavolo ma porto a casa anche la creatività, l’intelligenza del lavoro, la sua dimensione umana.

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