Tommaso Romano, "Il Mosaicosmo nell'infinito" (Ed. Thule) - di Giovanni Teresi

Nell’opera “Il Mosaicosmo nell’Infinito” Tommaso Romano si coglie la rivalutazione etica della tradizione, la liberatoria rivolta contro la banalità e l’omologazione dei significati che incombe sul nostro tempo disattento al bello, il senso esoterico del “magnetismo cosmico”.

Con un linguaggio incisivo e al tempo stesso delicato, il Nostro affronta temi diversi: l’attualità, la politica, la fiducia nella rinascenza dell’uomo nel segno indelebile del sacro, il limite di una visione antropologica dell’essere umano.

Tommaso Romano, studioso e ricercatore instancabile, ci offre una chiave interpretativa per guardare  il  mistero del Cosmo “attraverso le forme razionali e sapienziali della filosofia che possono mostrarlo immerso nella pienezza e nell’antinomia della verità vivente”.

Nella introduzione di Ignazio Buttitta  “In Natura Symbolum et Rosa” del Nostro, si legge: “Tommaso Romano, nella pienezza di una Fede mai neppure appannata dal pregiudizio ideologico, nel solco di una Tradizione costantemente misurata e nella indefettibile convinzione di una strutturale ciclicità del divenire storico, ha tessuto e continua a tessere la sua preziosa Weltansschauung  mosaicosmica. C’è in Romano una lucida consapevolezza che egli vuole condividere che non v’è Ordine senza Disordine, che non v’è Finito senza Infinito, che non v’è Cosmos senza Caos; nel senso che il Cosmos eternamente agente presume e insieme assume il Caos per risolverlo ciclicamente nel rifarsi del tempo”.

Un universo plasmato dal Logos cristiano appare in maggiore sintonia con una gnoseologia realista, in accordo con l'impostazione induttiva delle scienze, ed assai meno con le varie forme di idealismo, dal funzionalismo allo psicologismo. In un universo così viene favorita la convinzione che la verità delle cose non esista solo nella nostra mente, né implichi solo una coerenza astratta, ma appartenga alle cose stesse. La verità può certamente oltrepassare il paradigma dell'adaequatio, ma l'adeguazione fra intelletto ed oggetto resta un momento insostituibile del processo di conoscenza.

Chi indaga la natura può porsi di fronte ad essa considerandola oggettivamente, come qualcosa di autonomo, la cui razionalità è effetto della causalità esemplare e finale di un Logos che non si identifica con essa. Ne viene esclusa ogni forma di panteismo, ma anche ogni tentazione dualista.

La creazione procede ex nihilo e ciò assicura che il suo principio esemplare è unico, non il risultato di una dialettica fra spirito e materia o fra il bene e il male.

Il Mosaicosmo è come la grande scrittura, la registrazione in gerarchia armonia della Historia Mundi. Il senso della storia diviene così senso della tradizione, perché la tradizione è la memoria dell’uomo nel mondo; tradizione e memoria che spingono ad una politica in cui le finalità dell’agire siano ispirate dall’identità fra il bene e il bello.

Riguardo l’indagine sul piano estetico,  Tommaso Romano parla del “fare bellezza” nel senso che quest’ultima si risolve non solo in un concetto, ma anche in un “quid” che ammira “lo stupore della percezione”. La “bellezza”, insomma per l’Autore rappresenta ciò che egli chiama il “soffio del divino”, una volta ammesso che anche l’uomo, nel cosmo, è un creatore, anzi un co-creatore.

La sottovalutazione della bellezza è anche la sottovalutazione del bene”; è sempre in meglio e non in peggio che “La bellezza può trasformare. La bellezza, inoltre, è possibile sempre, in ogni luogo e condizione […] sacralizzando ogni ente, è possibile vedere la bellezza anche nella cosa più insignificante. Bisogna risacralizzare con lo spirito, ma anche con la nostra carne”: sì, perché anche il corpo è sacro secondo il credente cristiano in quanto per lui la persona è figlia di Dio in corpo e anima.

Di fronte al trinomio: bellezza-religione-arte, T. Romano sostiene che la religione, come l’arte, rappresenta anch’essa un legame mediante la “sacralizzazione” di ogni ente. Tali riflessioni ci portano al “mosaicosmo”; dottrina non come sistema, più o meno esaustivo, ma come un semplice percorso in direzione di un ideale di perfezione suscettibile di infiniti sviluppi.

Inoltre, Tommaso Romano nel suo “Essere nel Mosaicosmo” riesce a dare una risposta a dei problemi di carattere scientifico; in altre parole, la pretesa, errata, di poter applicare i procedimenti della scienza ad ogni aspetto del reale con effetti logicamente negativi e chiarisce che “tutto ha un senso” in quanto “le cose interagiscono con le altre secondo un programma e un ordine prestabilito, ma non statico”. La domanda sulla natura è quindi propedeutica alla domanda sull’essere.

L’interrogazione sulla natura non costituisce però un tema a parte, non delimita una regione del sapere filosofico, essa rinvia all’unica e imprescindibile domanda quella sul nexus, sul vinculum, “Natura”, “Uomo”, “Dio”.

L’autore di “Essere nel Mosaicosmo”, ad un certo punto, parla anche di “senso” nel significato di “Senso” che ogni soggetto conferisce alla propria vita, considerato che la pienezza della vita consiste, appunto, nel perseguire tale pienezza.

Così, volendo dare una spiegazione al “senso”, attingiamo dalla premessa di T. Romano:Il Cosmo, il Simbolo, il Mito e la Natura nella Tradizione Universaleche: “Identificare mito e metafora è già azzardato; ancor di più identificare mito e metafora con l’arte tout court; ma, se vogliamo focalizzare, del pensiero di Vico, proprio quell’aspetto che più da presso l’estetica, occorre tener conto in primo luogo di quegli elementi irrazionali, immaginifici e persino illogici, che hanno tanta parte nella sua descrizione delle lingue eroiche.

Ecco allora, che ricorrere al mito come metafora storica, e alla metafora come mito linguistico non sembrerà del tutto impossibile o azzardato. … il mito ci consente di ricostruire quegli squarci della vicenda umana di cui la storia ci ha privati e che, invece, sono determinanti per la comprensione del sorgere e del costituirsi di una civiltà. Il mito ci offre una verità dell’immagine che – alla stessa stregua della verità artistica – è spesso più attendibile d’una verità storica.”

“L’arte ha sempre saputo e voluto congiungere mito e simbolo, per le sue espressioni e per la sua necessitata creatività o ri-creatività, attingendo, al fare, alla civiltà, alla memoria, all’immaginario e a sacro, alla Tradizione, trasformando la fantasia in un ordine, la poetica con la razionalità, il reale con l’ideale …”

La logica filosofica sin qui espressa sui miti, simboli, natura e uomo, ha un fondamento basilare sul concetto che Tommaso Romano dà della Tradizione, la quale diventa la chiave di volta del riposizionamento della distinzione (nei suoi due aspetti di individuale e di collettiva) nel mos maiorum e nel more nobilium; e a sua volta sulla distinzione di homo nobilis e homo communis (uomo colto d’animo nobile che si distingue dalla società di massa).

Questi principi sono caratteriali dell’opera “Elogio della distinzione” (Fondazione Thule Cultura, Palermo, 2016) del Nostro, ove prevalgono i valori cavallereschi di nobiltà, aristocrazia, tradizione anch’essi fondanti nella distinzione tra concetto cosmopolita del mondo e concetto di universalismo filosofico; tra la bellezza della creazione divina e la bellezza dell’arte, della poesia e della natura; tra la scienza ed il progresso come ambiguità inquietante.

Oggi sentiamo la mancanza di tante figure giganteggianti che, come l’antico Sordello da Goito, sappiano professare e testimoniare la vera dignità della vita, l’autentica severità della coerenza, la limpida condotta dell’uomo onesto e di gentile aspetto, dell’uomo, ovvero, che impronta a decoro e a virtù i propri pensieri, i propri sentimenti, le proprie gesta. In questo senso una vita decorosa è tale quando sa ostentare il decoro morale e gli obblighi di comportamento sociale che da esso derivano.  Certo, ribadisce T. Romano, “l’eccessivo autocontrollo, la mancanza d’ironia, l’isolarsi dal mondo senza amare la benefica solitudine o il fuggire senza scopo o peggio annegando in una vita fre­netica che dimentichi il suo limite temporale e la condizione reale, sono un proibitivo ostacolo al conseguimento pieno della virtù per l’uomo che si educa alla nobiltà del com­pito di vivere, con determinazione e con autentica semplicità. Che non corrisponde certa­mente all’esibita (e falsa) umiltà o, peggio, a quella che si dichiara come un ossessivo mantra. La misericordia, solo Dio la può concedere.”

L’armonia con sé stessi è il fondamento primo, sia del rapporto con il prossimo che scegliamo come interlocutore, sia per risacralizzare il possibile e contemplare.

Occorre in tal senso il saper riscoprire e professare le virtù cardinali: prudenza, tempe­ranza, forza, giustizia e così sfuggire al “virus della sottomissione” (Michel Houellebecq).

Quanto sulla necessità di riscoprire contemporaneo ciò che fu giustamente ritenuto civile e che è, allo stato presente, ad un solo passo dal diventare definitiva ecatombe, irrimediabile barbarie; la Foresta di segni, simboli, monumenti, miti, di ciò che è tramatura mirabile, insieme materiale e immateriale, la si considera oggi come mera rappresentazione di paesaggi e beni del passato, o da abbandonare o da restaurare, a seconda della convenienza e dell’in­teresse, e vi ci si sofferma con distrazione, abituati alla consuetudine degli interventi or­dinari manutentivi, insensibili al degrado o alla loro stessa scomparsa.

“Se solo ci guardassimo in giro capiremmo il male che ci accompagna nella vita insana di metropoli, borghi, nelle stesse campagne, monti, mari, fiumi e laghi, tutti violentati dall’inquinamento, dal disinteresse e animati solo dalla noia, o peggio invasi da vacanzieri ignoranti alla ricerca del sensazionale, ovvero dal superficiale. Volgarità e dolore, direbbe Elémire Zolla.”

L’essere umano si illude che con la tecnica può riuscire a dominare la natura, e così pecca si “ubris” per indicare la tracotanza, la superbia, che per l’uomo greco era l’unico vero grave peccato di cui poteva macchiarsi un essere umano.

Infine, le élites giocano sempre un ruolo di guida in ogni epoca storica; la loro scomparsa, o la loro sostituzione, determinano mutamenti non irrilevanti negli assetti sociali e politici consolidati. Le élites sono perciò indispensabili per gli antichi e nuovi regimi. Ma, avverte T. Romano, c’è una grande differenza fra quelle che dominano le scene di oggi e quelle che governavano nell’Antico Regime. Le élites di oggi non sono altro che delle oligarchie monopolizzatrici, cioè gruppi di potere, invece quelle di ieri esprimevano uomini dotati socialmente e pubblicamente delle migliori qualità. Le nuove o rinnovate aristocrazie prendono forma attraverso la ricezione e la permanenza nelle istituzioni cavalleresche. Gli Ordini cavallereschi, con i loro Statuti e le loro Regole religiose, possono costituire infatti, per Tommaso Romano, una scuola d’onore, di fede, di lealtà e di dignità. Così che coloro che vi sono accolti possano essere educati alla vera, integrale nobiltà, cioè alla magnanimità dell’animo, all’umiltà delle pratiche di edificazione spirituale, all’impegno di dedizione caritativa. Poi, dai numerosi richiami e citazioni sul diritto romano e cristiano, è utile ricordare l’origine e la legittimità del Potere ( in Teleologia e Fonti del Diritto tra Romanità e Cristianità) e come l’influsso della Romanità e del suo spirito e mito nella comunità cristiana, sia stato sostanziato da un rapporto di reciprocità proprio in nome dei valori, alla lunga, condivisi.

La stessa Cavalleria vantava tutti i suoi Codici, codificati in una sintesi alta fra lo spirito della milizia romana, la ritualità classica e la nobilitante carità cristiana. Quella carità che è amore del prossimo, si fa così prossimo.

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